Una persona che conosco dice che pranzare al ristorante, seduti, intrappolati dallo scintillio delle posate, induce impressioni del genere. Dico, sentirsi quadrati. Schematici. Razionali. Ci si sente responsabili a forza. Capisci che è tutto un farsi quattro passi, che è tutto un ma come sta la sua signora?, che il senso sta tutto in un caffè preso al volo, prima di prendere un treno, e non un treno a caso. Quello. Per andare lì. Per fare a sua volta qualcosa d'altro. La vita è un concatenarsi di eventi obbligati, la felicità una gratifica natalizia.

Volevo scriverla per bene, questa. Una bella recensione esplicativa. L'avevo immaginata pressappoco così:

"Ed Alleyne-Johnson, già nei New Model Army, violinista atipico ed elettrico dal nome altisonante, con le sembianze di un punkettone scornato prima e di un veterometallaro abbrutito poi. Bazzica le strade d'Albione, suonando nelle piazze come busker, con l'ausilio di una serie infinita di loop e pedaliere. Se ne esce fuori nel '94 - prima di perdersi nel suo repertorio ruffiano di cover violinistiche di pezzi famosi, da snocciolare soprattutto in strada - con un bel dischetto strumentale intitolato non molto fantasiosamente "Ultraviolet". I nomi delle tracce corrispondono ai colori dell'iride. Il tutto è molto carino e vagamente new age. Anche se può stancare, dal momento che i giri su cui le composizioni si imperniano sono più o meno sempre quelli. Nel complesso però il lavoro si lascia ascoltare bene, complici gli effettini e i distorsori anche pacchiani di cui il Nostro a tratti fa uso, e i loop e i pizzicati con cui compensa le mancanze di uno strumento normalmente solista, ma dalle molte potenzialità inespresse (senza voler andare sul postmoderno, qualcuna ne aveva già tirata fuori un tale Niccolò, che però non aveva evidentemente il jack giusto per attaccarlo a un distorsore. Sai quei problemi di maschio-femmina...). Il disco, come un eventuale lettore con un minimo di vita interiore avrà già afferrato, è infatti interamente incentrato sullo strumento-violino, ed esclusivamente composto di sovrapposizioni violinistiche che il Nostro riesce egregiamente a ricreare dal vivo grazie all'armamentario di cui sopra. Talvolta cambiando anche la struttura delle composizioni, che si rivelano così poco più che canovacci. Il tutto non cela tuttavia nessuno studio vero e proprio delle potenzialità nascoste dello strumento, né sperimentazioni particolarmente ardite. Non è un pazzo, l'Ed, né un genio.

Di particolare il disco ha solo il suono complessivo, il mood, l'idea, affrontata a forza di fraseggi a volte più vagamente celtici (con retrogusto altrettanto vagamente arabeggiante, a tratti) che propriamente classici. Fin quando il vecchio Ed non si convince di avere in mano una chitarra elettrica, e lì partono sbrodolate uniche che starebbero forse meglio con sotto una batteria.
Complessivamente un disco piacevole, con qualche velleità evocativa, che vale senz'altro un 3,5."

Ecco, così. Dati accademici quanto basta, nozioni tecniche quanto basta, un pizzico di acidità che fa sempre un po' critico frustrato alla Scaruffi, ma se non altro c'è anche un po' d'ironia a stemperare. Incuriosisce, informa, critica, non si sbilancia, dà parvenze illusorie di obiettività.

Poi mi rileggo, e non sono io. Lo riascolto, e il disco non è lui. No, non è possibile che abbia scritto questo.
Quello che ascolto è tutt'altro, rispetto a quello che ho scritto. E' un ricordo che prende corpo, nell'unico momento in cui può farlo prima di tornare a essere quel che è (e che ne so, io, che è: nebbia, già vissuto, già visto, forse niente). E' un mondo dai contorni vaghi e sfumati, ma allo stesso tempo concluso, autosufficiente, parallelo, straniante. E' musica insondabile, che vedresti come sfondo di una fase REM finita particolarmente lontano.
Mi piace saltare di colore in colore, senza un ordine preciso. E' come manovrare i cambi di umore. Il giallo mi prende particolarmente; non so che tipo di simbolismo individuarci e non mi interessa nemmeno. L'arancione mi attraversa, enigmatico. Il rosso angoscia; il blu, non ne parliamo. Verso la fine la musica è lo scheletro di sé stessa, e tintinna come uno xilofono di ossa. Dopo un po' non riesci nemmeno più a distinguere i flussi emotivi, l'uno dall'altro. Questo perché le note, passando, lasciano sempre una scia di sé stesse, come se non volessero rassegnarsi al loro momento di evidenza all'orecchio. Come se cercassero l'immortalità, svanendo ma senza fretta, confondendosi con quelle più vive e presenti, riempiendo di echi la caverna dell'ascolto.

Non mi va di lasciarlo, e lo ripesco spesso. Quando non ho appigli, quando non ho fantasia. Alle volte lo ascolto verso le sei del pomeriggio di giorni insulsi e senza via d'uscita: non è giorno, non è sera e non è tramonto e ci si sente persi, quindi va bene. E' un disco a cui, a dispetto dei nomi delle tracce, non riesci a dare un colore preciso, se non qualche assurda sfumatura in bilico. Ma forse non sono cose che puoi pensare di condividere. Forse è una questione di essere soli con quelle cose incomunicabili, e basta.

E' che a me rimangono solo impressioni. Il resto mi sfugge. E' che non ci riesco proprio, a vivere di altro.

Affanculo i ristoranti.

Carico i commenti...  con calma