Ed Motta è probabilmente un carneade ancora per molti. Nonostante una decina di album, alcuni di essi davvero ottimi, il primo datato '88, ed un gran numero di partecipazioni a lavori di artisti di rilievo, tra gli altri Roy Ayers, Gilberto Gil, Marisa Monte, Incognito, Morelembaum2/Sakamoto, continua a rimanere in un cono d'ombra. E' uno di quelli le cui canzoni nessuna radio "passa"; i cui video non sono e non saranno mai in programmazione su MTV; che non riempiranno mai stadi, né saranno chiamati a partecipare a festival alternativi o ad "adunate oceaniche" tipo 1 maggio.
Eppure Ed, al contrario di quello che qualcuno potrebbe pensare, non è un cultore di astruserie o di avanguardistiche ed elitarie sperimentazioni. Egli ha, fin dagli inizi della carriera, composto tanta musica solare, godibile, anche ballabile, speziata, ariosa, colma di riferimenti, soprattutto jazz-fusion, soul e funky, apolide e allo stesso tempo profondamente brasiliana.
Un talento davvero impressionante; un polistrumentista, capace per bravura di non farti capire quale sia il suo strumento d'elezione, con una vocalità dai colori dell'arcobaleno, degna del miglior Al Jarreau, ma con una maggiore propensione per le tonalità basse. In un vorace corpaccione che ricorda vagamente la sagoma del nostro Galeazzi, con la non trascurabile differenza che quello dell'elefantiaco telecronista laziale è occupato quasi totalmente dalle flatulenze, sono tenute insieme tante anime, tante personalità, tanti virtuosi, non ultimo l'appassionato di classica e di opera lirica.
"Dwitza", album risalente ormai ad un lustro fa, è quello che a mio parere riesce a rendere al meglio tutta questa ricchezza, questa debordante vena creativa, questa leggerezza da piccolo dirigibile, che gli consente di sorvolare senza problemi i sempre più tenui confini tra i generi. Basta ascoltare anche solo i primi due brani, "Um Dom pra Salvador" e "No Carrão Eu Me Perdizes Na Consolação" per rendersi conto del reale valore dell'artista e farsi un'idea della bontà di alcuni degli "ingredienti", peraltro molto ben amalgamati: vocalese e scat, fusion anni '70 alla Return To Forever, assoli da jam session.
Chi poi ingolosito dal succulento antipasto ( a proposito, il nostro è anche un ottimo gourmet e collezionista di vinili, oltre ad essere stato critico cinematografico), volesse andare avanti, farebbe bene ad accomodarsi su una sedia sdraio per assistere, come su una spiaggia carioca, allo spettacolo dei fuochi d'artificio.
Con "Sus-Tenta" un lussurioso funk prende il sopravvento, il nostro è anche nipote di Tim Maia, indiscussa autorità brasiliana del genere citato, cimentandosi in acuti e falsetti che ricordano un po' quelli di Philip Bailey.
"Doce Ilusão" segue, invece, la luminosa scia dei maestri, Jobim in primis, una ballad che potrebbe dare una concreta mano nel vincere le ultime resistenze di una partner un po' ritrosa. "Lindúria" poi da sola vale il prezzo del biglietto: echi di Steely Dan, percussioni tropicaliste e chitarra blues servite insieme ad una Batida de coco.
Ma Ed intende stupirvi e mantiene quello che promette: con "Valse ao Beurre Blanc" vi ritroverete, come d'incanto, tra gli Champs Elysées con lui in maglietta a righe orizzontali (XXL, s'intende...) novello chansonnier a dare manforte a due cantanti lirici; mentre con "Amalgasantos" dà un altro saggio delle sue straordinarie doti vocali, inseguendo gli acuti degli ottoni e percuotendo amabilmente, nelle pause, uno xilofono. "Coisas Naturais" è il brano che gli Incognito non riescono a scrivere da un bel po', un sincopato acid jazz con Hammond d'ordinanza (indovinate un po' chi lo suona...).
Ancora fusion di livello superiore in "Malumbo", con un dissonante sassofono a dare riverberi quasi free. La passione per il cinema e per le colonne sonore si intuisce in "Madame pela Umburgo", strumentale ispirato alla tradizione compositiva italiana, a Piccioni e al maestro Morricone in particolare. In "Papuera" lo scat e la tromba diventano protagonisti assoluti. Chiude la struggente "Instrumetida" dove un altro amore, quello per la musica bandistica (quel bel basso tuba di una volta...) viene confessato.
"Dwitza", lo avrete capito, non è un album per minimalisti, per diete ipocaloriche, per amanti della nouvelle cuisine. Qui ci si siede a tavola ben intenzionati e si fa onore al pantagruelico menu preparato dal bulimico chef. Ogni tanto si può esagerare; anzi, si deve.
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