Tra spiriti selvatici l'affinità non è mai un problema. Basta una semplice occhiata, poche chiare parole, per capirsi e sapersi ascoltare. Eddie Vedder è un uomo che aspetta il suo momento, tranquillo, con umiltà: rifiuta la facile e grassa promozione. Si nega con vigore ai flash della celebrità contemporanea, e non rincorre il futile ‘botto' d'una carriera solista inutile come Cornell.

Un uomo ‘antico', che riesce ancora a stare in un angolo della stanza senza smanie d'infantile protagonismo. Lui vive così, al di fuori di un ‘sistema' musicale che oggi ti mastica un pò e domani ti sputa via. Ma fuori anche da una politica, da un'amministrazione (W. Bush) che spesso ci dileggia. Ci prende per il culo. Perciò Eddie, qualche anno fa, pensa bene di ‘scollegarsi' dalla routine quotidiana (era il post-Roskilde). E la passione per il surf lo portò a largo delle isole Hawaii, in mare aperto: dove, con altre cinque persone e in piena tempesta, vide la morte da vicino.

Spiriti selvatici affini, dicevo. Amicizie nate un poco per caso, ma spesso perché ritrovarsi a fianco durante proteste o battaglie perse (John Kerry) aiuta a darsi forza. A specchiarsi negli stessi ideali, fortemente ‘liberal' e ambientali, di un amico attore-regista quale Sean Penn. Aiuta a credere. E alimentare quel sacro fuoco che soffia sulla nostra passione. ‘Into the wild' è la colonna sonora dell'omonimo film di Penn, basato sulla storia vera di Chris McCandless. Un giovane che, finito il college, decide di mollare tutto. Il proprio futuro ‘regolare', i soldi, la famiglia e senza guardarsi indietro. Inizia nei primi Novanta (l'epoca di "Ten") il suo viaggio\odissea da hobo, attraverso l'America e poi in Alaska. Nel ‘selvaggio' scenario naturale tra i ghiacci, dentro l'avventura. Un gesto estremo, unico, di un coraggio primordiale: che non avrà un lieto fine, a causa di una pianta velenosa.

Un esordio anomalo e onesto tanto quanto l'autore delle musiche, quello di Vedder. Molta sostanza, e polpa, nelle 11 brevi tracce di ‘Into the wild'. Quasi a rimarcare una differenza, un ‘volare basso' ma concreto rispetto alle ultime stanche prove in studio targate Pearl Jam. C'è voglia di suonare quel banjo, strimpellare l'ukulele e accarezzare con la solita voce di cartavetro una melodia, in queste note a volte figlie d'una tastiera sghemba. Con scatti nervosi, quando serve, a voler ricostruire il fascino delle terre al nord del pianeta; nelle ballate ruvide e sincere di una strumentazione ‘povera', e pochi fidati collaboratori come il producer Adam Kasper, Jerry Hannan e Corin Tucker delle Sleater Kinney. C'è il profumo di sano artigianato in musica, fatto d'idee che abbracciano la tradizione per raccontare una vita ‘vera', ma straordinaria. Specie in anni d'illusionismi, e di pallide ‘realtà' vendute dagli schermi tv.

30 minuti essenziali, privi di pause superflue, tra i quadretti acustici e strumentali di ‘The wolf', ‘Tuolumne', l'intimo slancio di ‘Setting forth' e le sonorità rotonde, calde di ‘No ceiling'. I teneri arpeggi in ‘Long nights', la calma ombrosa di ‘End of the road', le memorie younghiane che tornano nel vigore di ‘Far behind', l'accorata ‘Society' e i suoi cori solitari, l'anima folk e tenera di ‘Rise' e ‘Guaranteed'.. 'Hard sun' è il singolo scelto da Vedder, una ballad corale che s'apre epica con le chitarre nel finale: e testimonia il gusto sbilenco del Nostro, una cover di un oscuro brano fine '80 di tal Gordon Peterson scovato chissà come.

Un lavoro suggestivo, forse ‘imperfetto', e il canto di Eddie, insieme virile e dolce, che può ancora scaldare e farci trovare un riparo. Come quel ragazzo meravigliosamente perso, al mattino, nella sua immagine in uno specchio d'acqua. Riflesso sconfinato della Natura, madre immensa e severa.

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