Strano ed eccentrico personaggio Eden Ahbez, anzi “ahbez”, come ci teneva a rimarcare, visto che riteneva che la lettera maiuscola fosse un attributo divino.
La leggenda narra che, prima di salire alle cronache per aver scritto “Nature Boy” nel 1948, per niente di meno che quel mostro sacro di Nat King Cole, vivesse accampato con la sua adorabile compagna, sotto la “L” della scritta Hollywood sulle colline di Los Angeles, sopravvivendo con lo stretto necessario: un sacco a pelo, un po’ di verdura e qualche nocciolina, quando andava bene.
Un sognatore visionario, poeta bucolico e pastorale, personaggio che travalica qualsiasi barriera spazio-temporale, un hippy già da prima che esistessero gli hippy, un beatnik con un innata capacità compositiva, e non solo con la penna, già da prima che il beat divenne la new thing della letteratura; barba e capelli lunghi da novello Gesù Cristo sceso in terra. Un fricchettone ante-litteram dalla lunga chioma bionda ai sandali, attratto dal misticismo orientale quanto dalle oscure sonorità esotiche. Facciamo un passo indietro però.
Come detto Eden abhez (!) sale alla ribalta grazie all’incontro casuale con il manager di Nat King Cole, cui fa ascoltare la sua “Nature Boy”, che diverrà un classico del repertorio di Cole, un evergreen della musica pop-jazz, cantata e suonata poi da decine di musicisti. Tuttavia malgrado il successo (che, inutile e superfluo dirlo, non scalfì minimamente il suo originale quanto inusuale stile di vita) raggiunto grazie a “Nature Boy” sul finire degli anni ’40, è nel 1960 che il buon Eden fa uscire un disco tutto suo: “Eden's Island”, per l’appunto, un piccolo gioiello senza tempo.
Quando lo si ascolta si è come sospesi in aria, sospesi sulla stramba isoletta di Eden. Se si guarda tra le leggere nuvole che la sovrastano, sembra quasi di intuire gli odori, la leggera brezza tropicale, i suoni, cullati dalle melodie oniriche e dagli stralunati, quanto fantasiosi arrangiamenti. Musica e poesia sono la medesima cosa.
Scricchiolii di barche ancorate in chissà quali porti, rane che cantano alla luna, scudisciate selvagge, cori di vispe voci femminili si mescolano ad un sapiente uso di bonghi, fiati e percussioni e alla voce di Eden, che ovviamente non sarà quella di Cole, ma che recita impeccabilmente poesie dai temi idilliaci e surreali.
L’atmosfera calma e rilassata, un’aura insolitamente paradisiaca ti avvolge sin dalla traccia iniziale “Eden's Island” e ti guida lungo traccie-poesie come “Full Moon” (quella delle rane… ) e “The Old Boat” per poi scuoterti un po’ con “Mongoose” o “Surf Rider”. A ben diritto Eden ahbez, non era una divinità, no, ma può esser considerato tra i maggiori esponenti della musica exotica, precursore dello space age pop e anche di un certo tipo di “pop- colto” (passatemi il termine), dagli arrangiamenti orchestrali e barocchi. Non a caso si dice che lo stesso Brian Wilson abbia subito la sua influenza nella stesura di “Pet Sounds”, prima e di “Smile”, poi.
E scusate se è poco.
Carico i commenti... con calma