A due anni di distanza dal disco di esordio, gli Editors tornano sulle scene inglesi con un album che mostra fin da subito un'evoluzione rispetto alle sonorità che hanno contraddistinto il precedente "The back room". Va detto da subito che, considerata la generale euforia che sempre si scatena in Inghilterra non appena un gruppo qualunque realizza un singolo decente, nel loro caso le lodi della critica si sono dimostrate esatte; c'era chi aveva predetto in tempi non sospetti che questi quattro musicisti di Birmingham avrebbero a loro modo fatto strada. E così è stato.

Ora, va fatta una premessa. Quando ci si trova di fronte ad un disco come "An end has a start" bisogna innanzitutto chiedersi, anche laddove il disco piaccia, quanto ci sia di autentico. Se si considera infatti che oggi anche chi si atteggia a cantautore depresso o a musicista serio e malinconico (e ci sono centinaia di band così) lo fa solo per poter accedere ad un mondo che di autenticamente depresso ha poco o niente (lo showbiz), nel caso degli Editors è lecito dunque domandarsi quanto le melodie siano sinceramente tristi e quanto di (commercialmente) ricercato ci sia in questo.

A sentire le parole di Tom Smith, il cantante e principale compositore dei pezzi, le liriche e le atmosfere sono state influenzate dalla morte di alcune persone a lui vicine; questi eventi, lungi dal poter essere giudicati obiettivamente, hanno però l'indubbio merito di conferire veridicità al concept del disco. Già l'iniziale "Smokers outside the hospital door" ci mostra una band matura, capace di passare da un riuscito intro voce, batteria e pianoforte al classico riff di chitarra che ci siamo abituati ad ascoltare fin dai primi singoli del precedente album. La canzone è tra le migliori e lo dimostra con passaggi in cui si alternano momenti rock e ponti lenti e malinconici, con un coro nel finale; è stata scelta come primo singolo probabilmente proprio per mostrare l'evidente evoluzione rispetto a "The back Room". Il secondo brano è la titletrack, "An end has a start", probabilmente uno dei pezzi rock migliori del 2007, con il cantato di Tom Smith (una delle voci più interessanti e particolari dell'intero panorama rock inglese, non sbaglia davvero chi l'ha visto vicino a Ian Curtis) che si fa più potente e aggressivo, perfetto per incarnare la verve della canzone. La terza traccia è "The weight of the world", uno dei brani più tristi e profondi mai usciti dalla penna di un gruppo del 2000 alle prese col suo secondo album. A livello di testo è la più matura ed espressiva. Quattro minuti e venti di pura poesia, con i violini ad accompagnare la voce sognante di Smith nel ponte che già da solo vale l'intera canzone. Segue "Bones", brano rock che più di tutti si avvicina ai singoli del precedente album; l'incedere ricorda "Fingers in the factories", uno dei pezzi più convincenti di "The back room". Peccato che il tutto, se paragonato anche e proprio a quanto esposto precedentemente, suona un po' come già sentito.

"When anger shows" è invece il miglior brano dell'intero disco, un connubio perfetto tra una melodia ispirata e malinconica e un ritornello rock coinvolgente e azzeccato, il tutto accompagnato da un arrangiamento perfetto, con la batteria di Ed Lay a scandire con intelligenza l'evoluzione ritmica del pezzo e il vibrato di Chris Urbanowicz a sostenere perfettamente la voce di Smith. La canzone si distingue anche per l'ottimo testo. La successiva "The racing rats" si giostra tra pianoforte e voce, convincente nel suo incedere e forte della perfetta melodia che raggiunge il culmine nel ritornello. La chitarra ritaglia ancora una volta riff perfetti ma non riesce a sbocciare in un vero assolo, limite francamente evitabile con un minimo di pretenziosità in più. Alcuni secondi di silenzio fanno da preludio alla lenta "Put your head towards the air", una ballad semiacustica dove si accompagnano pianoforte e chitarra a seguire gli echi lontani di organo e violini; la canzone si distingue dalle altre per il fatto che, contrariamente a quanto accaduto precedentemente, la chitarra non esplode mai e il ritmo del pezzo rimane prevalentemente calmo. Le influenze che tanti hanno sottolineato, prime fra tutti con gli Interpol, va detto, si fanno comunque meno evidenti, e anche pezzi ambiziosi come questo si fanno decisamente più personali, insigniti di un timbro personale abbastanza evidente. "Escape the nest" è un altro pezzo rock strutturato in maniera simile a "Bones", con un ritornello orecchiabile e l'ennesimo riff ripetuto con veemenza. Gli echi di "Spiders" ricordano un suono quasi radioheadiano; ancora una volta si intuisce la presenza di un pianoforte che ha l'indubbio merito di elevare il livello di quasi tutti i brani.

Si capiscono le voci che vedevano gli Editors avvicinarsi ad un sound "alla Coldplay", anche se fortunatamente per loro la vicinanza rimane minima e soprattutto come atmosfere i quattro di Birmingham si muovono soprattutto verso il primo e migliore album della band di Chris Martin, abbastanza dark per i gusti degli ascoltatori un po' più alternativi. Come detto, resta da stabilire quanto ci sia di sincero in tutto questo. L'ultimo brano del disco è anche il più toccante. Solo due minuti per "Well worn hand", ma sono due minuti di pura poesia con la voce di Smith accompagnata solo dal pianoforte e da una chitarra lenta e sognante. Canzone triste e fortemente emotiva, in cui Smith raggiunge forse il suo apice interpretativo conferendo al brano un'impronta indelebile che amalgama perfettamente testo e melodia. Se ancora una volta a livello di liriche ritorna il tema del distacco, della morte, e quindi del cambiamento, l'intero concept dell'album trova nei versi finali la sua degna conclusione.

Dunque un album coinvolgente, che mira chiaramente da un lato a conquistare la vetta delle classifiche europee e dall'altro a trasmettere comunque e nonostante tutto emozioni autentiche e sincere; obiettivi questi discordanti tra loro, ma chiaramente evidenti dall'alternarsi di pezzi orecchiabili e commerciali a ballate e brani rock capaci di spaziare verso atmosfere meno dirette e facili, più dark e in qualche modo più alternative. Un disco che ci dimostra tutte le potenzialità di un gruppo che ben presto sarà chiamato a scegliere in quale direzione orientare veramente la propria musica: se verso la piattezza del mainstream o verso l'ambiziosa e difficile strada che si presenta davanti a coloro che cercano veramente di rendere onore al rock, come gli Editors con questo "An End Has A Start" hanno probabilmente fatto.

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