Questa cosa, mi dissi, andava fatta.
Quella che segue è una libera interpretazione, libera da qualsivoglia ideologia personale, forse vera forse folle e forse davvero più grande di me, di qualcosa che una sua spiegazione magari l’ha anche, per lo meno nella testa di chi questo qualcosa lo compose; ma tant’ è…
“We Berliners are unique”, recita la didascalia della foto sulla busta… Ora come ora la città teutonica non evoca che splendidi momenti d’esaltazione (Campioni del Mondooooo!!), ma 30 anni prima che Cannavaro sollevasse quella coppa, un altro napoletano cantò di un’altra città. Una città ferita, divisa, condannata. Una città malata. La sua malattia aveva sintomi in muratura e filo spinato. Berlino Est è in mano ai sovietici, la repressione sugli abitanti è insostenibile, eppure un raggio di speranza arriva da un uomo qualunque alla guida della sua carrozza: “Io vendo la libertà. – grida Franz con la sua voce stridula – Non pensateci, non abbiate paura: west Berlino vi aspetta, con tutti i vostri desideri nelle sue vetrine e tutti i vostri sogni , proibiti fino a ieri, a portata di mano!”. La sua voce è quella acerba di Edoardo Bennato, che accompagna lungo questa lunga ed illusoria ballata, episodio tra i più rilevanti di questo ellepì del 1976.
“La Torre Di Babele” colpisce per prima cosa per l’originale veste grafica, a cavallo tra passato e futuro: in copertina uno splendido disegno dello stesso Bennato, una piramide raffigurante la storia dell’uomo, tra conquiste e rovina; una biblica Babele, appunto. All’interno, invece, un bel disegno con i collaboratori in posa lunare, a simboleggiare il futuro spaziale. È appunto la title-track ad aprire l’opera: bellissimo brano rock, con un Bennato ironicamente intento ad esortare l’uomo a superare continuamente se stesso, perché "l’ uomo – come ricorda tra i suoi spettacolari versi – è superiore ad ogni altro animale". Ottimo l’arrangiamento, con il sassofono di Robert Fix in evidenza. Ad essa segue una perla, canzone acustica tra le più belle dell’intera discografia. “Venderò” è il concedersi dell’uomo alla causa superiore, il bene del mondo in cui vive. Tutto fa brodo, tutto contribuisce al benessere: le scarpe possono essere vendute ai manichini, le conoscenze ai maestri del progresso, la sconfitta a chi ha bisogno di sentirsi forte, perfino la rabbia ai benpensanti bigotti… Come dice il buon Raffaele, il Mercato fa fuori chi non ha nulla da offrire; eppure qualcosa di senza prezzo c’è e val bene qualunque privazione: la libertà. L’allegoria della dittatura (che forse mi sogno, non lo so) potrebbe proseguire con la scanzonata “EAA”… Il pullman (il popolo?) ha i freni rotti e va dritto verso il burrone; il conducente-dittatore dice che farà il suo dovere fino in fondo, poi abbandona alla prima distrazione, lasciando il pullman lungo la discesa. Ma la gente non s’è accorta di niente, e continua ad intonare cori. Solo una persona s’è accorta del “lavaggio del cervello” cui ha condotto il partito, e allora sente di voler fare qualcosa, quantomeno di scendere anche lui… un qualcosa si cercherà di farlo nel brano seguente, appunto la bellissima “Franz È Il Mio Nome”. Il lato A chiude con il classico “delirio” Bennatiano: “Ma Chi È” . Da gustarsi fino in fondo, nel suo interrogativo ossessivo (forse simbolico del popolo che non vuole cambiare)… “Chi è, là fuori?”
La libertà, si diceva: la libertà va conquistata, e allora quale mezzo migliore se non l’esaltazione dell'azione? Questo è “Viva La Guerra”: lascia la tua terra, la tua donna, concedi te stesso alla causa. Il nemico della guerra santa ha le fattezze del feroce Saladino, ovviamente. La dedizione deve essere totale, ovviamente… “E se per caso tu morissi non devi temere: ti faremo un bel monumento che tutti quanti potranno vedere!” Aldilà dell’ironia e parlando di musica, perché di nient’altro in realtà si parla, la canzone è un rock & roll splendido, dal ritmo incalzante culminante in una cosa strumentale notevole, con le percussioni di Tony Esposito in gran evidenza. Seguono canzoni magari meno appariscenti, comunque mi pare in qualche modo simboliche della tematica dell’opera. “Cantautore” (registrata dal vivo) è una specie di litania di autocelebrazione della categoria, o forse di un ipotetico dittatore, chissà… (“Non li senti trattenere il respiro, quando sei lì in alto e cammini sul filo? Qui, nel grande circo, tu oramai sei il re.” ) “Quante Brave Persone” è invece una stravagante canzone sulla diligenza del popolo, molto sofferta nell’interpretazione e stridula finanche nell’arrangiamento. Chiude “Fandango”, folle brano per il quale la mia insensata analisi non trova spiegazione (accetto idee…): a velocità assurda Bennato crea accostamenti stranianti (“ prima di darti il tempo di far la prima mossa mi trovo un posto da ala destra dentro una squadra di pallone”) per raccontare di una donna che, cucitasi una nuova bandiera ("tutta verde con una palla nera", in primo piano anche nel disegno centrale), cosa che sa di rivoluzionaria , fugge in Argentina per prendere lezioni di tango. La melodia impazzisce, e compare un ipotetico presentatore argentino a dare il benvenuto ai signori ed alle signore… è il caos, la Babele, culminante in una ripresa del tema di “Cantautore” a porre il sigillo all’opera.
L’ellepì, chiariamolo subito, per via di alcuni brani magari non indimenticabili, non è al pari dei capolavori che verranno, e forse neanche dell’ottimo “I buoni e i cattivi”, eppure ad esso, forse più di ogni altro tra i lavori degli anni ’70 del Bennato, mi lega un profondo affetto, merito di una manciata di canzoni davvero eccezionali e di un’atmosfera che pervaderà anche i grandi lavori degli anni seguenti, primo tra tutti quel “Burattino senza fili” che entrerà nella storia. Un ironico Pinocchio, dunque, che già Franz dalla sua carrozza predisse metaforicamente:
“Come Pinocchio non crederai ai tuoi occhi, quando vedrai il Paese dei Balocchi… ”
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