Edward Hopper dipinge scene della vita quotidiana che hanno le stesse caratteristiche di un paesaggio lunare. Le sue figure sono plastiche, ma cristallizzate in un'immobilità che sembra eterna. L'atmosfera è palpabile, ma asettica, quasi tutto l'aria fosse stato aspirata dalla composizione. Il clima è denso, ma invivibile nella sua deossigenazione. I soggetti paiono quasi mummificati, dotati di proprietà apparentemente plastiche, ma in realtà inanimati in una sinistra finzione.
Le luci e le forme architettoniche tagliano il dipinto in diagonale conferendogli una morfologia regolare ma inquieta, sembra che una gigantesca mano sia pronta da un momento all'altro a irrompere nel microuniverso della composizione accartocciandolo come una casa di bambole. La ragazza sembra salda nella sua posizione ma allo stesso tempo fragile e inquieta, un po' rassegnata, e un po' in attesa. È solo una calma apparente quella del primo mattino, sospesa in un intorpidimento che potrebbe essere come stravolto da un momento all'altro.
Sono micromondi che hanno un inizio e una fine ben circoscritti, e non danno l'impressione di una qualche via di fuga, una prospettiva che ci proietti al di là. Anzi, una prospettiva ci sarebbe, ma è una prospettiva chiusa, proiettata sul nulla. Ci si può anche spingere lontano con lo sguardo, ma nulla sembra poter cambiare, anche al di là della fabbrica fantasma sullo sfondo. Un nulla cosmico, dove ci si può perdere, e dove la protagonista del quadro, come in molti altri dipinti di Hopper, sembra essersi già persa.
La mancanza di riferimenti da un senso di alienazione che forse anche lei sembra percepire, in un velo di umanità residua celato sotto un' inquietante e piatta morfologia facciale. Sono volti spinti al limite dell'inespressività, che non dicono apparentemente nulla.
Forse Hopper è semplicemente un cattivo pittore, ma se fosse un pittore migliore probabilmente non sarebbe un arista così grande.
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