…I looked up, half hoping to see the thing from my dream, but all I saw was a sky full of stars”. (M. Everett)

Sospeso tra il cielo e la terra, tra la voglia di abbandonare un tempo e uno spazio con cui un tormentato come lui non può che collidere, e la scelta di resistere al terrore che lo circonda, Eels, al secolo Mark Everett, è l’ultimo discendente di una stirpe di cantautori che, da Nick Drake a Daniel Johnston, passando per Beck, Lisa Germano, Smog e molti altri, non hanno mai temuto di dare sfogo alle proprie insicurezze e di raccontare la loro realtà di perdenti.

Composto in seguito alla morte della madre e della sorella, 'Electro-Shock Blues' è di fatto un concept sul concetto di perdita, di assenza, e sulle sconcertanti sorprese che quella perfida e sghignazzante nemica che è la vita spesso ci riserva; in un sound che coniuga il folk alla sperimentazione più sfrenata, intriso di angoscia e nervosismo, Eels riassume e sublima i conseguimenti di un’intera generazione di losers.
Il suo è uno stile di contrasti appassionanti, che riceve l’acqua della vita dall’accostamento tra le parole dure e corrucciate, di chi non vedrà mai asciugarsi la sorgente del proprio dolore, e i ritmi spesso gioviali, nonché dalle melodie elementari e innocenti e da quel suo modo di canticchiare umilmente neutro e dimesso.

L’introduttiva “Elizabeth On The Bathroom floor” è l’agghiacciante resoconto di un’anima smarrita che cammina sull’orlo della depressione, fino a precipitare nel vuoto (“My name’s Elizabeth, my life is piss and shit”). Un ritmo vagamente funky smuove ulteriormente il terrificante realismo di “Going To Your Funeral” (“…and feeling I could scream”), mentre una tensione spasmodica, suggerita da un arrangiamento esangue e dissonante, impedisce di canticchiare tranquillamente il pur orecchiabile ritornello di “Cancer For The Cure” (“The kids are digging up a brand new hole/ where to put the deadbeat mom”).

Le disturbanti “Hospital food” e “The Medication Is Wearing Off” fanno pensare al sorriso beffardo di un folle che conosce una verità orribile, ma che nasconde ancora tra le mani un sogno che stenta a morire. La graziosa “3 Speed”, intonata nella più completa solitudine, esprime lo smarrimento di chi non sa trovare un senso alla propria pena (“Why won’t you just tell me what’s going on”), mentre la mesta ed esitante “Electro-Shock Blues” riflette lo sconcerto di chi è costretto a convivere col fantasma della propria follia. Quando si circonda di ombre, per intonare l’angelica melodia di “Dead Of Winter”, sembra di sentire il lamento di chi ha scelto di rinchiudersi per sempre nel suo guscio di dolore. Questi ultimi tre brani non sono poi tanto lontani dal folk più tradizionale, ma un’atmosfera ovattata e lugubre le trasporta miglia e miglia lontano da tanto pallido cantautorato odierno, incapace di dare voce alle turbe del cuore.

Eels si perde nel labirinto delle sue nevrosi: il ritornello pop di “Last Stop: This Town” non riesce ad infondere al disco quel po’ di vitalità in cui l’ascoltatore spera prima o poi di imbattersi. Semmai finisce per aumentarne lo spaesamento (“You’ re dead, but the world keeps spinning”). Cotanta tensione non può che confluire in un brano chiave come “Climbing up to the moon”, in cui il suo timbro disincantato intona una struggente lullaby che si culla in continue aperture melodiche, trasformando nel frattempo la sua tragedia in un dramma concreto e palpabile, privo di una soluzione davvero attuabile (“Got my foot on the ladder and I’ m climbing up to the moon” ).

Chiude il disco "P.S. You Rock My World”, sorprendentemente aperta alla speranza, e il messaggio è chiaro: il dolore non genera solo dolore, e da esso per quanto raccapricciante, si può e si deve sempre rinascere (“Maybe it’s time to live”). Ma dopo tante piccole e grandi ferite, è impossibile una vera e propria catarsi.

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