Prima prova solista per il cantante dei Leprous. Le aspettative erano alte, ci si aspettava un gran disco dal frontman di una delle band più innovative degli ultimi quindici anni… e infatti lo abbiamo avuto! Einar Solberg fa tesoro di tutta l’esperienza ed il senso di ricerca e sperimentazione attuato con la propria band e lo mette tutto in campo in questo “16”.

Eppure quando vedi la copertina pensi ad un disco pop commerciale, nessuna immagine o composizione artistica a far da biglietto da visita, Solberg si mette in posa nella cornice di un lago neanche troppo visibile guardando un punto fisso, probabilmente l’ignoto. Scelta pacchiana e bocciata, gli scatti ritrattistici lasciamoli ai cantanti pop, che rimangano appannaggio dei vari Laura Pausini, Biagio Antonacci ed Eros Ramazzotti, ad un artista serio queste scelte non dovrebbero nemmeno passare per l’anticamera del cervello. Ma poi ci ricordiamo che non si giudica un disco (così come un libro) dalla copertina e che si tratta di Einar Solberg, non uno qualsiasi.

Solberg prende spunto dalle ultime produzioni della band di provenienza e le inserisce in un contesto ancora più soft votato ad un sofisticato art-pop. Se nelle pubblicazioni più recenti dei Leprous le chitarre si sono affrancate dal metal del primo periodo qua si affievoliscono ulteriormente perdendo perfino quella ruvidità residua; mai si torna a battere territori metal, nemmeno quando in “Splitting the Soul” interviene urlando il vecchio amico Ihsahn (solo uno dei tanti ospiti presenti). A dire il vero le chitarre non sono affatto le grandi protagoniste, si preferisce focalizzarsi su altro. A far da padrone sono soprattutto gli archi, più o meno con le stesse modalità con cui si sono imposti negli ultimi Leprous, possiamo dire che anch’essi, per come si presentano, sono un’importazione dal bagaglio della propria band; essi suonano spesso delicati e cullanti, allo stesso tempo malati e drammatici, altre volte sono invece fiammanti e persino assordanti (in senso ovviamente positivo), in alcuni casi anche pizzicati con risultati assolutamente sorprendenti, comunque mai ordinari, mai davvero sinfonici, non aspettatevi entrate da opera classica. Al loro fianco c’è un sapiente uso di elettronica, anch’essa mai convenzionale, a volte con suoni ispidi a volte più ricercata e oscura.

La voce di Einar è invece una confortante riconferma, non un passo avanti né uno indietro, sussurra con eleganza nelle parti più lente e sputa fuori rabbia quando i ritmi si alzano, diciamo che sotto quest’aspetto tutto è abbastanza prevedibile ma sempre tremendamente ammaliante; forse è il caso di sottolineare il ritorno ad una maggiore enfasi sul lato più aggressivo, nell’ultimo lavoro con i Leprous le scelte stilistiche lo portavano a prediligere più nettamente lo stile sussurrato.

Non sono escluse soprese più clamorose, una su tutte “Home”, dove si mischiano frizzanti fiati, archi, elettronica glaciale e perfino il rap, recitato magistralmente da Ben Levin (ex Bent Knee), che l’aveva già fatto in maniera spiazzante nell’album di Richard Henshall; un mix di pop moderno, swing e rap che non può certo passare in sordina.

Per concludere, in “16” Einar Solberg non dimentica da dove viene ma promuove una maggiore indipendenza, è perfettamente a metà strada fra ciò che ha fatto con la band e i territori che può esplorare autonomamente. Il risultato è in ogni caso stupefacente, ci si poteva aspettare l’ennesimo disco solista senza troppe pretese e invece è uno degli album top dell’anno.

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