Nell’ aprile 2014, la promessa di un cambiamento radicale della mia vita portò inaspettatamente con sé alcune decisioni da prendere e qualche necessità materiale. Mi trovavo per caso sulle mura veneziane di Bergamo alta e, dopo una mattinata di camminate sotto il sole, fui consigliato nel comprare due giacche estive chiare, a prezzi interessanti. Ero fiero di me, nascondevo con cura le mie solite insicurezze, dentro quella stoffa tardo estiva, lieve e morbida al tatto. Non sapevo ancora che quella sarebbe stata l’unica volta in cui avrei indossato quella giacca.
Dieci anni dopo, ora, in questa catena di negozi nel centro storico di Bologna, dopo altrettante passeggiate sotto un sole promettente, un sorriso lieve su di me, neanche troppo amaro, cancella oggi tutte quelle certezze e quei grandi progetti di vita. Vedo una fila di giacche chiare invitanti economiche di discreta qualità e buon prezzo, pronte per essere indossate nel camerino e poi, forse, mai più.
La radio della mia testa, in questo rinnovamento primaverile, oggi come allora, trasmette le note cangianti di “Blue World”, l’opening del curioso disco “The Take Off and Landing of Everything”, che molti diranno, a torto, non imprescindibile, uscito proprio dieci anni fa, nel marzo 2014.
Le melodie fascinose e agglutinate dalla voce bellissima di Guy Harvey si muovono qui su registri interessanti e, grazie all’andamento poco sincopato e a tratti sussurrato degli arrangiamenti, possiamo di certo annoverare questo disco come la vetta più sperimentale del quartetto di Manchester.
La svolta dei due dischi precedenti, decisamente su tinte più rock con il consueto schema dell’album puntellato da ballate ariose ed esplosivi momenti vocali al termine di un prevedibile climax basato su una strumentazione classic-rock a quattro elementi (vedi i brani superclassici “One day like this” o “Neat little Row”), aveva raggiunto una sua celebrazione nel disco, pur abbastanza scontato, con l’orchestrazione della BBC del 2011 “Dead in the boot”.
Era tempo di cambiamento anche per gli Elbow, il 2014, e la volontà di uscire dagli schemi classici dello show business, nonostante la popolarità e l’immane talento del suo cantante, in qualche modo sentirono la necessità di ritrovare la loro origine cameristica indie rock, date le notevoli uscite discografiche dello stesso genere di quegli anni.
Nemmeno loro però sapevano che sarebbe stato poi quello il culmine e il colpo di grazia di una certa visione elettroacustica in grado di produrre hit da “season final” per O.C. o altri show analoghi. Forse una delusione, un po' come per le mie giacche ma, tutto sommato, prevedibile e su cui si può sorridere perché, nel grande calderone del tutto, fa riemergere ciò che conta davvero.
Ormai la liquidità musicale pop aveva divorato sé stessa e tutti i sottogeneri dell’indie erano entrati a far parte dei featuring di ogni genere musicale, soprattutto americano, dall’hip hop non underground fino alle collaborazioni dei Flaming Lips con Miley Cirus, per non tacer di Florence and The Machines come collaboratrice fissa di Lady Gaga e ancor oggi di Taylor Swift.
Già dalla copertina non si capisce bene: è un Buddha bambino, è un’immagine di rimpianto a tinte azzurre, è semplicemente un sorriso malinconico associabile alla tipica sonorità “made in Elbow”? Un po' questo e quello, ma questa volta con dilatazioni temporali e liriche assolutamente ispirate, al punto da rallentare il battito fino a ricostruire con linee vocali raddoppiate e in contrappunto tutta una serie di meditazioni, a tratti davvero notevoli, a tratti più ingenue, che rendono questo disco assolutamente unico in tutta la loro discografia.
Molto interessante l’uso degli strumenti a fiato, assolutamente meno patinati rispetto ad altre produzioni. Di grande impatto su tutto anche l’Hammond, prima onnipresente ma dietro le quinte e qui invece in gran spolvero in posizione audio avanzata. Certo, lo stile “mantra music” può non essere perfettamente riuscito come in altri conterranei grandi classici (appunto) senza tempo quali il George Harrison solista più spirituale, però qui non c’è solo l’idea, ma anche una qualità musicale, come sempre in generale quando si parla della musica degli Elbow, godibile e in movimento.
Scomodare Shakespeare nel testo di “Sad Captain” è una presa di posizione alquanto coraggiosa e rischiosa, ma conferisce al canone ripetuto del brano un andamento degno dei migliori Verve, con una componente melodica vocale che dal vivo è quasi certamente in grado di generare generosi brividi.
Bellissimi anche i rintocchi piano e drum machines di “Colour Fields” in un’atmosfera riconciliante con le sensazioni di pancia che una bella giornata di sole che sta finendo può suggerire.
Vorrei poter tornare indietro nel tempo a volte. Entrare a tradimento in quel camerino e dire a me stesso nel 2014: “Simone, ma di cosa esattamente ti stai preoccupando? Continua a leggere, meditare. Lascia perdere queste cazzo di giacche, please.”
Ma è in fondo forse è proprio la ripetizione di noi stessi e dei difetti che ci accomunano che ci insegna forse qualcosa che non sappiamo, se sappiamo riconoscerla, la ripetizione. Come il mantenere un tocco di piano in battere e provare a mettere la chitarra in levare, produrre canzoni di oltre cinque minuti che non possono essere trasmesse in radio, lasciare parlare la musica e le sue atmosfere, meditare profondamente, contemplare e mettere insieme le sensazioni simili di due giornate a distanza esatta di dieci anni l’una dall’altra.
The Take Off and Landing of Everything è un disco da recuperare, anche a pezzi, prima che sia lui un giorno a recuperare i tuoi.
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