“Legalize Drugs & Murder”
A voler essere concisi e diretti, l'epopea oramai ventennale degli Electric Wizard di Jus Oborn si può racchiudere nella frase sopracitata (di per sè citazione del titolo di un EP di pochi anni fa). Un lungo ed ossessivo trip musicale nutritosi di droghe psichedeliche, spesso di basso livello, visioni horror 70's, immagini cosmiche terrificanti e efferati fatti di cronaca nera. Nello specifico “Time To Die” è ispirato dal caso di Richard “Ricky” Kasso (un nome un programma il ragazzo), 17enne americano che nel 1984 uccise, sotto effetto di allucinogeni, un amico durante un non ben definito rito satanico, finendo per cavargli gli occhi; arrestato, dopo pochi giorni si impicco in cella.
Storiella con lieto fine a parte, la cronaca è mero artificio per fornire a Oborn e sodali la tela su cui schizzare sangue nero e visioni distorte. “Time To Die” è il solito profluvio di riff pesanti come l'antimateria, che partono dalla madre terra dei Black Sabbath per finire a guardare Saturno ingoiato da un buco nero siderale. Ecco, questo evocano alla fine gli Electric Wizard migliori. Uno stordimento fisico dovuto al peso specifico quasi palpabile della loro miscela doom, il cui ascolto provoca spesso affaticamento mentale ma soprattutto fisico. Però, al contempo, Oborn mai ha fatto mistero della propensione alla visione acida propria di una certa visionarietà tutta albionica, figlia tanto degli Hawkwind che dei primi Pink Floyd. Ovvio, qui lo spazio è un luogo malefico e terribile, da cui provengono orrori insondabili e fuori dalla nostra concezione spazio temporale. Una visione molto simile a quella di H. P. Lovecraft.
Dopo due ultimi album come l'ottimo “Withcult Today” e il meno ispirato “Black Masses” che arrotondavano gli spigoli della produzione pre 2004 (dischi macigno come “Let Us Prey” e “Dopethrone”, per intenderci), pochi si aspettavano un ritorno al passato così ispirato e “cattivo”. Sarà il ritorno all'ovile di Mark Greening, batterista della line up originale, ma a giudicare anche solo dai quasi 30 min che racchiudono le prime tre tracce, i ragazzi lasciano zero al compiacimento del pubblico e 1000 a loro stessi. “I Am Nothing” distrugge tutto a suon di chitarre su Nettuno, voci distorte ed una coda noise psichedelica da paura (ma quella vera). La titletrack è un'ode al wah wah più selvaggio, mentre “Incense For The Damned” a metà rallenta e diventa un pachiderma di titanio che rade al suolo, ma lentamente, le vostre sinapsi. Non mancano brani radio friendly (Radio Belzebù, ovviamente) come lo stoner investito dal camion della nettezza urbana di “SadioWitch” o la canzone d'amore del custode del cimitero di “We Love The Dead”. Notevoli anche gli intermezzi ambientali fra lo spazio più nero (“Saturn Dethroned”) e il paganesimo più vero (“Destroy Those Who Love God”).
Aspettiamo fremendo di vederli sulla prossima copertina del Corriere dei Piccoli.
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