Se un supergruppo persiste i motivi sono essenzialmente due: o ha spaccato più dei progetti basali (New Order nel caso di Sumner, mentre Marr al tempo era perlopiù session man) o i componenti stanno bene insieme. Gli Electronic si collocano a metà strada. L’album omonimo di debutto raccolse consensi. Sarebbe rimasto una tantum e nessuno avrebbe preteso un seguito. Va da sé che questo Raise The Pressure sia grasso che cola.

Venne reclutato Karl Bartos dei Kraftwerk per dare una mano in fase di produzione, ed il disco venne pensato, ripensato, arricchito di fronzoli, tanto da vantare una gestazione quasi biennale.

Il risultato è gradevole. Raise The Pressure non ha la personalità del predecessore, ma ne sviluppa gli intenti e ne arricchisce le sfumature.

Invertendo gli addendi il risultato non cambia; non invertendo gli addendi, il risultato si sposta su livelli la cui unica discriminante è il trascorrere inesorabile del tempo.

Questo disco si ascolta volentieri perché incarna pop, rock, elettronica e voglia di spassarsela in studio in egual misura.

Non fa torti, se non quello di essersi fatto attendere troppo.

Un lavoro eterogeneo che non ha culmini, potremmo definirlo così. Pronti via, è subito ibrido: la voce inconfondibile di Sumner, chitarre, il solco dal primo album appare evidente. Qui o si fan gli Oasis o si muore ? Naaa.

Tempo di schiarirsi le idee e la venatura dance torna a far capolino, per poi attutirsi, per poi ravvivarsi, per poi morire, per poi rinascere. Sembra una ritrosia mal concepita, ma così è. Nel senso: terminato un brano, non sai che aspettarti all’attacco del successivo.

Nel primo album la meditazione era demandata ai testi: qui si tenta di far palare maggiormente la musica. Si pensi alla laboriosa intro di ‘Until The End Of Time’, sontuosa in alcuni tratti, talmente arricchita da sfuggire o disturbare se non pulita da remaster. O, ancora, a come le chitarre facciano da contraltare nel bridge di ‘One Day’ oppure alla morte lenta della sintetica ‘If You’ve Got Love’.

E’ curioso e contraddittorio. ‘Electronic’ del 1991 è più convulso ma lavorato di getto, questo più immediato ma partorito con notevole ritardo.

13 brani per costruire una piccola torre di Babele che comprende tante lingue, in termini di efficacia sonora, ed il risultato riesce. L’intento di confermarsi meno, forse perché non voluto.

Gli Electronic non hanno mai cercato di crearsi una storia, o un alibi, o un’immagine. Hanno offerto un prodotto sovrappensiero, con la testa ora qui ora là. La base solida è l’approccio allo strumento, la libertà di sperimentare senza strafare, la leggerezza di chi una credibilità già ce l’ha e non deve niente a nessuno.

Questo avranno pensato Bernard e Johnny performando, ad esempio, ‘Freefall’.

Storie d’amore elevate, roba che in giro si trova ma qui è resa nicchia, che il pop e la dance ma pure l’acustica possono coesistere, come separati in casa, ma pur sempre insieme.

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