"Egli vide le città di molti uomini e ne conobbe i costumi... Soffrì molte traversie in mare cercando di salvar la sua vita e il ritorno dei compagni... Ma neppure così li salvò, sebbene lo desiderasse e volesse. Morirono per le loro colpe gli insensati... E il dio gli tolse il ritorno."

Perdonatemi, ve lo dico fin da ora. Perdonatemi se sarò vago. Perdonatemi perchè non risparmierò parole, non sdegnerò di descrivere in ogni aspetto le emozioni. È un momento di confronto. È una sfida. DEVO farlo. Peccherò forse di egotismo; ma d'altronde non farlo significherebbe commettere un peccato ancor più grave. Potrei usare tante belle parole, sballottate qua e là da decenni per descrivere la bellezza di un disco, non so se avete presente i vari "Per chi ama la musica vera", "Per chi dalla musica cerca emozioni", "Musica pura, per intenditori", "Da avere assolutamente...". No. Gli Elend non amano la retorica. Meritano ben altro. Questo perchè "I venti che divorano gli uomini" non è musica. È concetto. È desolazione, è solitudine, è viaggio ultra-dimensionale, coinvolgimento non tanto/solo emotivo nel senso stretto quanto mentale, concettuale, spirituale. Un abisso senza luce: bisogna raschiarne il fondo per decifrare il lato oscuro della vita.

I franco-austriaci Elend, del duo Hasanoui/Tschirner (attorno a cui ruota una line-up di vari elementi), sono una delle realtà più affascinanti della musica neoclassica del nuovo millennio. Inutile disseminar paragoni con i ben più noti Dead Can Dance, o Black Tape For A Blue Girl, eliminando chitarra e batteria, immergendo raffinati arrangiamenti cameristici in un'ottica gotico/sinfonica estremamente oscura, decadente e desolante. Gli Elend hanno vita propria. Fin troppo: la loro non è musica di facile accettazione, impone un'assimilazione fuori dall'ordinario per essere compresa nella sua interezza, per quello che è veramente. Già aprendo la confezione ci si può accorgere di quello che ci aspetta. La copertina dal rapporto cromatico rosso/nero fa intravedere l'ombra una creatura alata che sembra ergersi dalle tenebre. L'interno è nero: la foto oscura di un campo, con sotto una frase in greco, tratta dall'Odissea. E il booklet totalmente bianco: non vi è una separazione delle canzoni. Tutti i testi sono parti liriche di un unico poema, scritto da duo stesso, intervallati da immagini dai toni surreali. E all'interno il CD: nero come la pece, nero come la musica che contiene. Oscurità pura.

La trilogia è stata chiusa dal precedente "The Umbersun". Ora tutto è cambiato. È arrivato il momento della rinascita. L'aggressività è solo un ricordo: niente più orchestrazioni demoniache, trionfi di violini dannati o screaming vocals. È l'introspezione a regnare sovrana. È la voce di Renauld Tschirner, vero e proprio narratore dell'oblio... Il rumore che scava nell'animo, la melodia che squarcia l'atmosfera, suoni ancestrali che imprimono la desolazione, dove l'ascoltatore si perde, non riesce più a ritrovare la strada, solo e abbandonato, mentre chiaroscuri industriali o sinfonici iniettano la paura, il terrore. Come Odisseo in mezzo al mare, da solo, tradito dai compagni. O come il vecchio marinaio nella meravigliosa ballata di Colerdge. Musica che riesce a manifestare la visione ed il sogno: più unica che rara. In fondo è proprio questo il concept su cui si basa l'album: Il "viaggio", il viaggio come metafora della vita, il viaggio spirituale del poeta per ritrovare se stesso, in mezzo alla pura solitudine.

Quello che più stupisce di "Winds Devouring Men" è il suo continuo confrontarsi con se stesso, il suo continuo alternarsi di emozioni contrastanti, che lo rende un'opera completa sotto ogni punto di vista, forse la migliore in ambito neoclassico negli ultimi anni. La maestosità onirica di "The Poisonous Eye" , infatti, contrasta il drammatico intimismo di "Worn Out With Dreams"; allo stesso modo il sublime intreccio di violini in "Charis", che si erge da un'atmosfera teatrale, abbraccia l'ascoltatore e accarezza le orecchie, distaccandosi dagli scenari apocalittici della complessa "Under War-Broken Trees", dove sono il pianoforte ed il sussurro ad infondere paura, affiancati da infernali percussioni elettroniche che sembrano il rumore di un mare in tempesta. Paura, però, che non raggiunge i livelli della strumentale "Winds Devouring Men": la title track, infatti, è un vero incubo, una visione maligna, dove un tappeto di violini disperati è martoriato da strazianti cacofonie industriali che sembrano provenire dalla mente distorta di uno psicopatico. Ma non bisogna nemmeno dimenticare la mistica melodia di "The Newborn Sailor", come i rintocchi di campane in "The Plain Masks Of Daylight"... Si arriva stremati a "Silent Slumber: A God The Breeds Pestilence", la bonus track che si candida tra le migliori perle del disco, con una Natalie Barbary che squarcia l'oscurità dei violini, una luce perfetta a tracciare la sinfonia del dolore. "Winds Devouring Men" è un disco che fa paura, che elimina ogni superficialità, che necessita il "faccia a faccia". C'è bisogno di coraggio per affrontarlo. Lo stesso coraggio che servì ad Odisseo per affrontare il mare, lo stesso, anche se il viaggio che qui c'è da affrontare è diverso... Quindi, prima di affrontarlo, chiedetevi se siete ben preparati. E' molto difficile che lo apprezziate al primo ascolto, necessita di un'assimilazione completa. Io stesso ho dovuto studiarlo a fondo per scrivere ciò che ho scritto. Ma se gli saprete donare tempo, vi ripagherà: non potrete più farne a meno. Onirico quanto misterioso, affascinante quanto spaventoso.

Perdonatemi per la prolissità. Perdonatemi per tutto. Fino ad ora questa è stata la mia recensione più difficile... Ma in mezzo a tutta la musica che ci viene affibbiata giorno per giorno e che alla fin fine non ci dona niente, un ascolto impegnato credo che sia necessario... Concedetemi un estratto finale dell'opera:


"A l'affus des vents
Tapis sur la ligne d'horizon
Le timonier seul
La voilure vide l'espoire..."

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