Pomeriggio di cielo sereno e limpido, lui s’incammina veloce per non mancare ad un appuntamento o forse il suo passo è lento e se ne va senza sapere dove, meditabondo.
La gente gli passa accanto e sosta davanti alle vetrine, lui non trova interesse nei vestiti o in moltitudini d’accessori; ha il capo chino quasi pensasse di trovare qualche soldo per terra.
Passa una ragazza dal corpo sinuoso, la guarda e già sa che non farà differenza se lei ricambierà il suo sguardo o no: in ogni caso la passeggiata deve continuare comunque e l'estranea gli rimane nei pensieri per pochi secondi.
Ecco qualcosa che sicuramente lo interessa... Una libreria.
Gli piace leggere e l’odore dei libri nuovi è per lui un piacevolissimo richiamo.
Appena dentro si ricorda di come la libreria sia un luogo più sacro di qualsiasi chiesa e il rispetto silenzioso che vi si trova è quella riconciliazione che cerca col genere umano, che troppe volte per i marciapiedi si fa folla.
Ora che ha raggiunto quest’oasi si guarda intorno sperduto, sono tanti i libri che non ha letto e vorrebbe leggere; lo paralizza per un istante la cognizione che molti non ne leggerà mai.
Sono venti minuti che è li dentro, gli autori contemporanei non lo intrigano più di tanto salvo alcune eccezioni.
La sua rassegna quasi cieca e disattenta all’improvviso si blocca, c’è un titolo che lo colpisce: "Autodafè" di Elias Canetti.
L’autore lo conosce perchè è stato uno dei più grandi critici di Kafka, scrittore da lui molto amato.
Subito va a cogliere il segreto del libro leggendone un breve riassunto: Da una parte un grande studioso, Kien, che ritiene sgradevoli i contatti col mondo e ama in fondo una sola cosa: i libri.
Dall’altra la sua governante, Therese, che raccoglie in se la più volgare essenza della meschinità umana.
Romanzo primo e unico di Canetti, opera solitaria ed estrema, segnata dall’intransigente felicità degli inizi, "Auto da fè" racconta l’incrociarsi di queste due remote traiettorie e ciò che ne consegue, la minuziosa, feroce vendetta della vita su Kien, che aveva voluto eluderla con la stessa acribìa con cui analizzava un testo antico.
Sono queste le parole che legge sul retro del libro e il fatto che l’opera sia definita solitaria ed estrema ne decide l’acquisto.
Conclude di rimandare l’appuntamento, che tanto non era importante; se invece non aveva nulla da fare tranne passeggiare ora si siede su una panchina e legge.
Inizia il viaggio, il sogno, la meraviglia, la lettura si fa mondo nella testa e lui non sa più chi è, dove si trovi, cosa aveva da fare.
Legge del più grande sinologo del mondo, Kien, un uomo che nel suo campo ha una cultura senz’eguali e vive rinchiuso in una casa-biblioteca, esce da lì solo per recarsi nelle librerie e, restìo ad ogni rapporto umano, non è capace di comprendere i suoi simili.
Apprende che tuttavia Kien s'imbatte in una donna avida e vecchia solamente perché ha creduto che anch’essa amasse i libri quando questa è in realtà solamente capace di fare discorsi insensati e sognare amori con giovani commessi finendo per odiare infinitamente il marito.
La lettura si fa sempre più intrigante e c’è un gobbo ladro e appassionato di scacchi sposato con una puttana e amato follemente da una gobba che gli rassomiglia.
Fa capolino tra le pagine anche un portinaio brutale che da un buco spia la gente per evitare che i vagabondi s’intrufolino nel palazzo.
Il foro è all’altezza delle scarpe, ha imparato infatti a riconoscere calzature e vestiti dei condòmini.
Odia le donne e l’unica che crede di aver amato è la figlia morta, che però è stata da lui violentata e percossa.
E ci sono libri che si animano per entrare in guerra, monologhi stralunati, un uomo che viene accusato di scrivere ricette con i libri come ingrediente principale, uno che si finge cieco per elemosinare, un altro che ama solo le donne grasse.
Un libro quindi estremo, che si può collocare tra gli apici della letteratura del diciannovesimo secolo e che faceva parte di un progetto più vasto poi abbandonato, ovvero la scrittura di una "Commedia umana dei folli" composta da otto romanzi.
Un libro in cui vi è racchiusa tutta la pazzia del mondo e la solitudine dell’uomo che si rinvigorisce nei suoi pensieri, nelle sue fisime, nell'incapacità di comunicare; in uno stile denso, sarcastico, ironico e in monologhi interiori che, nonostante spesso sconfinino nel delirio, mantengono sempre un rigore a cui Canetti non ha mai voluto rinunciare.
E infine c’è uno che è rimasto su quella panchina a leggere finchè non è sceso il buio e una volta finito di leggerlo l’ha letto ancora e poi riletto; con una sola idea in testa, quella di dimenticarlo presto per poterlo rileggere nuovamente, provando sempre le stesse indicibili sorprese, meraviglie, emozioni.
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