Ad un certo punto mi ritrovai tra le mani un foglio sul quale, tra le righe, era scritto che ormai le istituzioni mi consideravano un uomo e confidavano che avessi cominciato a restituire alla comunità quello che la comunità mi aveva donato; insomma, caro mio, il diploma te lo abbiamo dato, adesso datti da fare, fatti una vita, trovati un lavoro e comportati da persona a modo.

A quel tempo era un dato di fatto che se eri uno a modo andavi a lavorare e facevi i preparativi per mettere su famiglia oppure con i soldi che guadagnavi ti pagavi l'università; se la voglia di lavorare era poca, continuavi a studiare e poi se ne riparlava tra 5 anni o 10 o in un poi indefinito; se anche la voglia di studiare latitava, allora prendevi lettere o filosofia; i casi disperati, invece, se ne andavano al DAMS.

Ecco, Elisa viene dal DAMS, diploma di laurea in contrabbasso classico e in tradizioni musicali extraeuropee. Ora, che ci fai nella vita con due diplomi di laurea, in contrabbasso classico e in tradizioni musicali extraeuropee? Lei, per dire, finisce a suonare punk in un pulviscolo di gruppetti che non sono sopravvissuti neppure alla prima prova nella cantina di casa del bassista. Almeno fino a quando, scocciata da tutti e tutto, molla quella strada senza uscita, si trova un lavoro e con quello finanzia la sua passione musicale, diventando una monobanda, insomma una che fa tutto da sola: canta, suona la chitarra, la batteria e percussioni assortite e fa tutto insieme.

Come suona una monobanda e soprattutto come suona Elisa? Essenzialmente blues con attitudine, e non solo, punk. Dal punk viene pure la filosofia del fai-da-te ed è così che in 10 anni Elisa mette in fila tre album, alcuni singoli, mini e split tutti rigorosamente fatti in casa con pochi mezzi e tonnellate di passione e al termine di ogni concerto, prima che sfumi l'ultima nota e si spenga il riflettore, lei ringrazia gli sparuti astanti e «Se mi volete supportare, là in fondo c'è un banchetto e ci trovate i miei dischi, offerta libera, grazie ancora davvero e alla prossima».

Finché nel 2021 si accorgono di lei quelli di Area Pirata; per chi non è adepto del culto, cosa sia Area Pirata è presto detto, la cosa migliore capitata all'Italia discara dai tempi della Electric Eye di Claudio Sorge. E se è vero come è vero che da cosa nasce sempre cosa, da qui nasce «Countin' the Blues», l'album.

Prima però, nel 2020, c'è stato pure «Countin' the Blues», il libro, e da qui parto, dal fatto che ho sempre sentito parlare dei padri del blues, di Robert Johnson e Skip James, di Charley Patton e Blind Lemon Jefferson, di Leadbelly e Son House, ma le madri, dove sono le madri? E quando Muddy Waters canta del blues che ha un figlio, intende che il blues è donna, giusto? E se il blues è la musica del diavolo e il diavolo è donna, allora il blues è donna, giusto? E allora, dove sono le donne del blues, quelle che 100 e passa anni fa cantavano e suonavano il blues pure meglio dei padri? Qualcuno conosce Mamie Smith o ha ascoltato la sua «Crazy Blues» o immagina che senza l'una e l'altra il blues sarebbe probabilmente sopravvissuto meno di una felce piantata nel bel mezzo del Gobi?

Io me ne tiro fuori, ammettendo la totale ignoranza della materia.

Ecco, Elisa parte da qui e con un tono spigliato e informale, che va a braccetto colla cura e la dedizione che ha messo nella stesura e la conoscenza profonda della materia, introduce 11 donne del blues – Bertha Chippie Hill, Ma Rainey, Lucille Bogan, Alberta Hunter, Lottie Kimbrough, Bessie Smith, Sippie Wallace, Memphis Minnie, Elizabeth Cotten, Victoria Spivey, e Geeshie Wiley – e per ognuna una canzone a suo modo significativa, spaziando dalla sessualità alla religione, dal corpo all'anima, dal pericolo di essere donna alla rivendicazione orgogliosa di esserlo, e coinvolgendo nell'opera una ventina di altre artiste, ciascuna con il proprio bagaglio personale di esperienza e riflessione.

A cosa serve, se serve, un libro del genere? Per me, la metto così, che mi serve a spazzare via un bel po' di ignoranza sulla materia e alla fine non so cosa pensare quando Elisa, sudando le proverbiali 7 camicie, fa una fatica improba a stilare una bibliografia specifica di mezza pagina – in Italia nessun segno di vita, il contributo più interessante mi sembra di intuire sia quello di Angela Davis, «Blues Legacies and Black Feminism», di cui Elisa riprende vari frammenti, traducendoseli da sola, la filosofia del fai-da-te di prima; che mi serve a capire che essere donna è sovente un lavoro usurante peggio che fare il minatore e non ha mai orario, 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana; che mi serve a confermarmi che la “questione femminile” è ancora aperta, oggi come 100 ani fa, in Italia come altrove, e che anche se si chiama “questione femminile” è quasi sempre una “questione maschile”.

E dovevo spendere 16 euro per leggermelo da Elisa, tutto questo? No, per molti versi non serviva, però alla fine del libro mi è rimasta una sensazione positiva, quella di essermi letto 200 pagine per conoscere vita, morte e miracoli delle donne del blues ed essermi ritrovato di fronte a una ventina di artiste che hanno condiviso con me in modo spontaneo ed immediato, qualche volta col sorriso e talora con rammarico, la loro esperienza, per quanto piccola fosse.

Poi, come se non bastasse, ho speso pure 10 euro per sentirmele cantare, sempre da Elisa, sempre le stesse cose, dato che, dopo il libro, nel 2021 è uscito l'album. Perché Elisa ha fatto il DAMS, avesse fatto economia e commercio, con abile mossa di marketing avrebbe abbinato i due supporti e moltiplicato il profitto grazie all'effetto combinato di economia di scala e leva finanziaria; ma poi mica posso spiegare tutto questo a una che esce dal DAMS.

Per cui l'album, che come il libro è una mezza sorpresa.

Lato A in purissimo stile Elli De Mon, chitarra, slide e bottleneck che la fanno da assoluti padroni e poi distorsione e toni fuzz che irrompono e si prendono la scena, attacca la batteria e tutte le diavolerie percussive che fasciano gli stivali di Elli, fino a scatenare una sarabanda che è tanto blues quanto punk'n'roll: l'unico paragone che mi viene è George Thorogood che mette Poison Ivy al posto di Chuck Berry, molla gli assoli e sputa fuori bluesacci più vampireschi che demoniaci e duri come le pietre in 3-minuti-3. La sequenza iniziale da «Prove It On Me Blues» a «Shave'em Dry» è di quelle che chiunque dovrebbe ascoltare almeno una volta, come si dovrebbero ascoltare le prime cose dei White Stripes o ancora meglio quelle dei Black Keys, per poi imbracciare una chitarra e mantenere vivo il blues sempre uguale a sé stesso nei secoli dei secoli e così sia. E comunque, Thorogood ha alle spalle una intera banda, White Stripes e Black Keys sono in 2, Elli invece fa tutto da sola e a sentire il muro di suono che riesce a creare quando assalta le canzoni di Alberta Hunter o Lucille Bogan si fatica a crederlo; e «Shave'em Dry» è in tutto e per tutto una delle cose più devastanti che mi sia accaduto di conoscere lo scorso anno, vale per l'originale della Bogan come per lo splendido rifacimento di Elli. Alla fine Elli rispolvera la sua laurea in tradizioni musicali extraeuropee, mette via la chitarra, imbraccia sitar e dilruba e chiude come meglio non si potrebbe con un'acida «Dope Head Blues» che pare discesa in linea retta da un interessante e bel lavoro del 2017, «Blues Tapes: The Indian Sessions», dove Elli dà libero sfogo alla sua passione per la musica orientale.

Il lato B, invece, è quello che sorprende: Elli dismette la chitarra elettrica, niente più amplificazione, niente più batteria, solo voce e chitarra e il frenetico punk-blues cede il passo al folk rigorosamente tradizionale e acustico tutto finger-picking di assoluti classici come «Freight Train», «When The Levee Breaks» e «Trouble in Mind» oppure la sconosciuta e deliziosa «Wayward Girl Blues»; niente più Thorogood o White Stripes o Black Keys, per rendere l'idea qui servono Elizabeth Cotten e Memphis Minnie e il loro approccio alla chitarra, tanto strampalato quanto rivoluzionario, talmente rivoluzionario da essere oggi assurto al rango di tradizione. E se questo lato B fosse una porta aperta sul futuro e l'approdo ad un nuovo modo di intendere il suo essere monobanda, sarebbe davvero una gran bella cosa.

L'album finisce qua, mentre nel cd un altro rifacimento di un brano poco noto, «Last Kind Words», chiude il tutto allo stesso modo in cui «Dope Head Blues» chiude il lato A del vinile, solo che «Last Kind Words» è per davvero una ripresa da «Blues Tapes».

In ogni caso, resta che ci ho speso 36 euro e non ne so un'acca di più di tutta questa faccenda, conosco una decina di canzoni in più e altrettante musiciste, ma di cosa sia veramente questo blues, a parte 12 battute impresse nella memoria oppure annotate su un pezzo di carta, è buio pesto. Ne è valsa la pena? Ne è valsa assolutamente la pena.

Anche perché come ripete sempre Elli a chi la elogia come una fenomenale donna del blues «Ma che ne posso sapere di blues, io che sono nata e cresciuta in una famiglia borghese in Veneto?».

Elisa De Munari o Elli De Mon, comunque sia una grande.

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