Luna Nuova, un'immagine azzeccata, espressa dalla stessa copertina, con quel colore blu notturno che avvolge un paesaggio che assomiglia ironicamente ad una metropoli (Portland?), dove ai grattacieli si sovrappongono ritagli di giornale, testi presi chissà dove, e dove la stessa luna è piena di parole senza un ordine preciso; insomma, un contrasto tra l'apparente calma di quel blu avvolgente, e una confusione di parole, termini, pensieri.. in sintesi: un ritratto di Elliott Smith.
Non è un'immagine dello "sdolcinato folkista allegro" quella che deve emergere dell'artista, perchè anche se dosi di dolcezza erano la ricetta dei suoi brani, si devono considerare i problemi di droga che hanno caratterizzato la vita dell'artista e sono stati causa del suo suicidio (circa 4 anni fa, causato da varie pugnalate al petto).
Ha quindi ormai finito di fare i concerti, ma non di fare dischi, perchè questo disco sembra proprio esser stato registrato attualmente da lui, come se, ritornato un attimo tra i vivi, abbia detto "grazie di tutto" a tutti quelli che l'hanno ascoltato, l'hanno amato, fino al punto di dedicargli ognuno una piccola frase nel noto murales a Los Angeles, e li abbia fatto un regalo sincero, come è proprio quest'album.
Parlando in termini meno "metafisici", fautrice di questa raccolta è la Kill Rock Stars, etichetta che aveva accompagnato Elliott in quel periodo che va tra il 1994 e il 1997 (sono quindi inediti di "Elliott Smith" e "Either/Or"). Quel periodo che è forse il preferito dai veri fans, che sono entrati in intimità con la sua musica, le sue idee, attraverso due semplici mezzi: chitarra e voce (a volte si può anche sentire una batteria in sottofondo, come se dovesse chiedere il permesso alle altre due per non disturbare, individuabile nella versione alternativa di "Pretty Mary K").
Quando si da un concetto di "musica indipendente", spesso ci sono molte discussioni, causate da diverse idee a riguardo; ma è proprio qui, in questo artista e in questo album, che si trova tutta la semplicità del concetto: registrazioni a volte accompagnate da un fischio soffuso, nessun ritocco digitale, note che a volte non sono suonate per bene e "frustano"; è in tutto questo che si nota la bellezza e l'intimità della musica, al contrario delle mega-registrazioni dei gruppi attuali che sembrano essere la preoccupazione maggiore al fine di un buon disco. Elliott ha smentito tutto questo, se n'è fregato della qualità della registrazione, ha guardato la musica in faccia onestamente ed ha ignorato i pregiudizi.
La prima traccia, "Angel In The Snow" è sicuramente ciò che meglio ci proietta all'interno dell'album: inizialmente accordi che sfiorano le corde piu alte, poi un attacco di note basse incisive che accompagnano tutto il pezzo, poco piu di 2 minuti che bastano per farci dire "questo qua ne sapeva a pacchi".
E' invece in "Riot Coming", "Georgia, Georgia", "Big Decision", "Almost Over" che c'è tutta l'energia di Elliott, mascherata da arpeggi e fraseggi acustici, ma espressa da una voce che fungeva da "valvola di sfogo" per i suoi sentimenti, e la dimostrazione di questo è proprio in "High Times", con un intro pacato ma pronto ad esplodere stile "Needle In The Hay", che trova proprio quello sfogo nell'ultimo minuto con un cantato che arriva all'apice dell'emozione, per poi riaquietarsi fino a svanire nel silenzio, esattamente come una tempesta estiva, di breve ma intensa durata. Una versione primitiva di "Miss Misery" è proprio quello che ci voleva per rimembrare i pezzi fondamentali dell'artista, così come la già citata "Pretty Mary K", irriconoscibile dalla versione di "Figure 8" e molto piu vicina alla "Angeles" di "Either/Or".
Strumentazione da rock band non è comunque esente totalmente in questo album, "Fear City" e "New Monkey" sono l'esempio di un pop-rock molto vicino ai giorni nostri, cosi come "Either/Or", stranamente non comparsa nell'omonimo album. "Seen How Things Are Hard" è un titolo che spicca subito tra i tanti, e la canzone non è da meno: si differenzia subito dal tipo di registrazione, la voce sembra lontanissima dagli strumenti, come se Smith stesse cantando dietro una porta chiusa.
Se all'intero album si è data la giusta immagine di un originale Elliott Smith, l'ultima traccia conferma quest'ipotesi, "Half Right" è un dolcissimo pezzo, pieno di malinconia e solitudine, sentimenti individuabili nel testo della canzone, dove Elliott evoca un amico immaginario, il quale non è altro che se stesso ("You shouldn't talk to your yourself\Well I pictured somebody else\Someone that looks like\What I look like"), una "giusta metà"... una solitudine che non è più amara, ma resa dolce da semplici arpeggi che si muovono lungo il manico della chitarra, provocando un sublime fischio di corde che rendono intimo il tutto.
24 tracce in un disco, anzi.. in un doppio disco, uscito al momento giusto, nel modo giusto, che avrà da saziare chi aveva fame di quell'atmosfera che solo questo tizio solitario sapeva creare.
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