“Xo” marchiò il debutto major di Elliott Smith nel 1998, quando la carriera del cantautore di Portland era al suo zenith, dopo la nomination all’Oscar per “Miss Misery”.
L’abbandono del mondo indie (il precedente “Either/or” era uscito per i tipi di Kill Rock Stars) mise Elliott di fronte a un bivio cui si erano trovati di fronte molti protagonisti dell’epopea grunge: come preservare un’etica indie che si traduceva in musica intimista e senza compromessi con i tentacoli del music business. La soluzione trovata fu tuttavia felicissima: “Xo” è un lavoro superbo, che ibrida con facilità le melodie vivide e deviate dei precedenti lavori, con una serie di soluzioni sonore più ampie e variegate, senza che sia perduto l’impatto del lirismo smithiano.
Dissipa ogni dubbio in merito lo strepitoso terzetto di apertura composto da “Sweet Adeline”, “Tomorrow Tomorrow” e “Waltz #2 (Xo)”, in cui sontuosi arrangiamenti tardo beatlesiani (periodo “Abbey road”) si incastonano su cristalline tessiture di chitarra e voce. Emerge subito che tali soluzioni soltanto in un paio di episodi (“Baby Britain”, “Amity”) appesantiscono le canzoni, ma che sono in generale funzionali al superamento del connubio – altrimenti imperfettibile - Drake-Cobain di voce e chitarra che aveva reso eccezionali i precedenti album. Gli echi di lavori come “Roman Candle” sono presenti soltanto sulla cruda ballata “Independence Day”, grezzo diamante che costituisce uno degli apici di “Xo”, oppure negli assalti reminiscenti del grunge degli Heatmiser di “A Question Mark” o “Bled White”.
Emerge altresì una cura del particolare, ad esempio il pianoforte dissonante che puntella la stupenda “Pitseleh”, o nell’elegiaca “Oh Well, Okay”. Stanno invece agli opposti “Waltz#1”, dal sapore morriconiano, struggente canzone d’amore animata da una incredibile congerie di intuizioni orchestrali, e la conclusiva “I Didn’t Understand”, squisito madrigale a cappella che pare uscito dai solchi di “Pet Sounds”.
A livello lirico, i testi di Elliott si focalizzano in gran parte sull’aspetto interpersonale, regalando squarci intimisti come sempre spiazzanti. Ad esempio in “Waltz # 2 (Xo)”, quando declama “it’s ok, it’s alright, nothing’s wrong / tell mr. man with impossible plans to just leave me alone /in the place where I make no mistakes/ in the place where i have what it takes /i’m never gonna know you now, but i’m gonna love you anyhow". Quasi scomparsi invece i pesanti riferimenti all’uso di droghe che caratterizzavano la produzione precedente, a parte la sferzante “Everybody cares, everybody understands”. In un crescendo orchestrale che ricorda i Beatles di “I Want You (She’s So Heavy)”, Elliott ironizza sulla sua dipendenza, con versi come “for a moment’s rest you can lean against the banister /after running upstairs again and again from wherever they came to fix you in /but always fear the city’s finest follow right behind/ you got a pretty vision in your head / a pencil full of poison lead /and a sickened smile illegal in every town / so here i lay dreaming looking at the brilliant sun / raining its guiding light upon everyone”.
Il solito Elliott Smith: forse nessuno come lui negli anni 90 ha rappresentato in maniera così toccante e ispirata i suoi demoni in musica.
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