Dai più snobbato come una sdolcinata checca con la paranoia dei capelli e degli occhialoni, Elton John è in realtà uno dei maggiori artisti comparsi tra le hit parade degli ultimi 35 anni.
Soprattutto durante il suo periodo d’oro, cioè il primo lustro dei ’70, quando sfornava la media di due dischi all’anno riuscendo a spedirli entrambi in cima alle classifiche di mezzo mondo, sir Reginald Wright è stato una delle realtà più felici del mainstream moderno. Il talento di questo bizzarro ometto genuinamente british sta nell’esser prima di tutto un grande interprete, duttile ad ogni tipo di materiale. Anzi, la pecca principale sta proprio nel suo essere un passepartout pop che, in quanto tale, ha conseguito uno stile vocale piuttosto impersonale, seppur difficilmente confondibile: i celebri vocalizzi e i falsetti giovanili del nostro ad esempio sono diventati proverbiali per la loro espressività e sensibilità al testo.
L’inseparabile piano è un altro elemento tipico delle canzonette della nostra drag-queen: scanzonato, suonato a volte con dolcezza, a volte con la ferocia da rock’n’roller d’altri tempi, terribilmente profondo su ballate sempreverdi, evocativo sui pezzi più semplici ma incredibilmente emozionante.
A seguire Elton nelle sue continue peripezie discografiche c’è quasi sempre il suo paroliere di fiducia, il compagno d’adolescenza Bernie Taupin, un Sancho Panza misogino e spiccio ma pieno d’immaginazione, che ha svolto sempre con molta dignità il suo ruolo di Mogol della situazione.
Dopo un esordio scialbo e acerbo (“Empty Skies”, 1969) i due daranno un primo, notevole assaggio delle proprie qualità in “Elton John” (1970), capostipite di una serie ininterrotta di blockbuster (almeno fino al flop devastante del doppio “Blue Moves”, 1976). In pochi anni Elton John, con una ottima band fissa alle spalle (Dee Murray al basso, Davey Johnstone alle chitarre, Nigel Osson alla batteria) metterà a ferro e fuoco le top ten mondiali con infaticabile prolificità, pubblicando album ogni volta diversi, carichi della continua sfida di migliorarsi e di stupire un pubblico sempre più entusiasta. Dall’amaro “Madman Across The Water”(1971) ai viaggi lungo la storia statunitense di “Tumbleweed Connection”(1971), dalle gioie e dolori del giovane Elton di “Honky Chateau”(1972) al bizzarro pastiche anni ’50 di “Don’t Shoot Me, I’m Only The Piano Player”(1973).
In mezzo a questo periodo da vero Re Mida, Reginald decise di superare se stesso con il primo album doppio della carriera, il caleidoscopico “Goodbye Yellow Brick Road”.
Concepito come un diario aperto sul mondo di John & Taupin, una collezione di sentimenti e ricordi, il concept diventa sempre più il collage sonoro di una storia musicale, il curriculum di quel che questi due furboni furono, fecero, provarono.
Dall’apertura con la suite progressive in due parti di “Love Lies Bleeding/Funeral For A Friend” veniamo accomodati sulle poltrone di uno spettacolo imponente, dove lo scopo è cercare di accontentare tutti. Viene realizzato così un efficace bignami che fosse un altro artista sarebbe già un greatest hits bell’e confezionato. Dal toccante omaggio a Marilyn Monroe di “Candle In The Wind”, alla meravigliosa “Bennie And The Jets”, azzeccatissimo racconto live di un gruppo di glam-rockers che affascina i ragazzetti di quartiere, dalla title-track autobiografica sull’inizio dell’età adulta fino alla pura poesia iniziatica di “This Song Has No Title” (titolo mitico), con Elton solo piano e voce lì a incantarci. Come dicevo ce n’è per tutti i gusti, dalle celebrazioni delle prostitute (“Dirty Little Girl”) e del vivere alla giornata (la parodistica “Social Disease”), agli amori saffici in vena di psychedelia (“All The Girls Love Alice”) seguiti dal contagioso hard-rock di “Saturday Night’s Alright For Fighting”.
Se ho scelto di parlarvi proprio di questo album è proprio perché è sicuramente rappresentativo di ciò che Elton John è e soprattutto è stato. “Goodbye Yellow Brick Road” è la perfetta introduzione al genio e alla mediocrità del caro sir, simbolo (in modo complementare forse a Marc Bolan e pochi altri) di cosa fosse vivere in quegli anni di romanzeschi eccessi e di creatività incontrollata, dove si poteva improvvisarsi senza pudori rasta-men d’esperienza (“Jamaica Jerk-Off”), solo perché si era andati in vacanza “ispiratrice” a Kingston (“beh c’erano già stati i Rolling Stones”
, spiegò) o inventarsi balli r'n'r mutanti con tanto di musichette circensi (“Your Sister Can’t Twist But She Can Rock'n'Roll“).
Se riuscirete ad apprezzare l’opera, ovviamente ridimensionandola ad un piacevole giocattolo melodico, potrete rivalutare anche l’eredità che ci ha lasciato questo simpatico e goffo principino decaduto del pop. E magari, scansando una marea di canzoni insulse e inspiegabili che disseminano una discografia fin troppo pingue (come il padrone), potrete imbattervi in veri gioielli (praticamente quasi l’intera produzione ‘70-‘75) da ascoltare e riascoltare con stima, pochi pregiudizi e molta godibile passione.
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