Conosco molta gente che ostenta la propria non-cultura dal salotto del proprio monolocale comprato su catalogo Ikea, che vanta molti amici gay “perché nei locali gay c’è sempre la musica migliore e poi non cercano di rimorchiare la tua ragazza”, che comprano i libri al kilo nei supermercati e che nella loro vita hanno ascoltato solamente i greatest hits degli U2, dei Pink Floyd e dei Queen. Conosco fascistoidi che agitano hot-dog come manganelli deliranti al suono dei Manowar ignorando che il loro mondo di cuoio, borchie e Harley Davidson sia stato copiato dal mondo dei marchettari omo americani più di 35 anni fa. E fa pensare il fatto che tifosi irriducibili di calcio con rigurgiti neonazisti così attenti alla (loro) sacrosanta storia non sappiano che, quando la loro squadra vince, cantano a squarciagola un epico inno gay partorito dalla mente perversa di un certo Freddie Mercury.
E poi c’è quel gran volpone di David Bowie. Rappresenta per il rock quello che Madonna è da sempre nel mondo pop. Una micidiale azienda di marketing precisa come un bisturi. Un camaleonte travestito da grande artista. Falso come Giuda, basa il suo successo su intuizioni studiate a tavolino: un giorno i Ragni da Marte, in principio bisex, poi etero, i Tin Machine…E la sua schizofrenia intesa come genialità non è altro che uno stato mentale dell’esercito vanaglorioso dei suoi ingenui fans. Ma la maestria di Bowie nel costruirsi una credibilità di ferro circondata da un alone di vago misticismo non è stata la stessa dell’autore dell’album in questione: Elton John.
Ormai diventato una checca sessantenne affettata e “fashion-victim”, è stato in realtà un compositore ed interprete di assoluta grandezza sfornando, specialmente nei primi anni settanta, album sensazionali, ricchi di pathos e geniali intuizioni melodiche. Perle come “Tumbleweed Connection" o “Madman Across The Water” valgono da sole l’intera discografia di Bowie. Ma Elton John è anche andato a “Buona Domenica” nel 1993, per esempio, deprimendo i suoi attoniti fans con un indecente teatrino tra Jerry Scotti e Umberto Smaila. Bowie, figuriamoci, non l’avrebbe mai fatto.
Elton non ha mai avuto il sex-appeal di Mick Jagger o la straripante energia di Freddie Mercury. E’ basso, brutto, porta un orrendo parrucchino e nel 1980, nel meraviglioso concerto a Central Park, si è presentato davanti a 500.000 fans vestito da Paperino. Ma è stato un grande lo stesso. Dietro i suoi ridicoli occhiali, le sue innumerevoli maschere, c’è sempre stata tanta, tanta sostanza. E una voce calda, un po’ nasale, versatile e graffiante. Di irriverente dolcezza. Nel 1981 esce questo disco, intitolato “The Fox”, uno dei più sottovalutati dell’artista inglese. Ho sempre amato questo album, così variegato, criptico e diretto allo stesso tempo.
All’epoca Elton John è un uomo che vive un radicale cambiamento nella scena musicale, tristemente conscio che non ripeterà più i successi giganteschi degli anni 70. Personalità evidentemente maniaco-depressiva, tenta il suicidio due volte dopo essersi innamorato prima di una ragazza e poi di un ragazzo. Ma, nonostante questo, non perde mai la voglia di prendersi amaramente in giro, come il brutto anatroccolo che sa che non diventerà mai un cigno. “The Fox” è tutto questo, e suona divinamente alle nostre orecchie. Perché Elton mescola vibranti brani rock intrisi di cori gospel e accenni blues (“Breaking Down Barriers”, "Heels Of The Wind”), creando melodie accattivanti e mai banali, supportato da ottimi musicisti: il sapiente tocco del batterista Nigel Olsson e la “metallica” chitarra del bravissimo Ritchie Zito, per citare i migliori; si inventa un brano sui generis come “Just Like Belgium”, che suona come un bambino che aspetta il suono della campanella l’ultimo giorno di scuola; opprime con una melodia che flirta ambiguamente con la disco, un brano sinistro che sembra non decollare mai ma che ti cattura dal secondo ascolto in poi (“Nobody Wins”); ti stupisce con un pezzo rock-blues un po’ acerbo (“Heart In The Right Place”) ma dominato da una eccellente chitarra contrapposta, come in quasi tutto l’album, agli arrangiamenti mai invasivi di James Newton Howard. Il pezzo “Carla/Etude/Fanfare” è un episodio isolato, una suite classica che poi sfocia nel brano che preferisco a tutti e uno dei miei preferiti in assoluto di Elton: “Chloe”, che parte in sordina ma che poi si scioglie in un chorus da brividi, con cori contrapposti a magistrali archi. Da ascoltare assolutamente.
La dura ma incompiuta “Fascist Faces”, impreziosita comunque dalla chitarra sempre molto tagliente di Zito si contrappone alla morbosa dolcezza di “Elton’s Song”, con testo firmato Tom Robinson, esponente della corrente new-wave dichiaratamente omosessuale.Un ragazzo in un college che si innamora di un suo compagno. L’impotenza di dichiarare questo sentimento e la scelta di viverlo in solitudine (non era facile come oggi, era pur sempre il 1981…) trasmettono sensazioni decisamente claustrofobiche, complici i sapienti accordi minori che Elton sembra prediligere in questi casi. Elton in passato era divertente quanto straziante, ed è la prova vivente che forse disintossicarsi da alcol e cocaina potrà farti vivere qualche anno in più, ma può renderti così lucido da diventare asettico, se scrivi musica di professione.
E così dolcemente “alcolico” è il brano che chiude l’album. Elton diventa “The Fox”, e come una volpe sa benissimo che in certi casi non può arrivare all’uva.
I bei tempi sono passati da un pezzo. I gloriosi anni 70 non torneranno più, e ci mostra un malefico - ma in fondo triste - ghigno in copertina. Ma sa anche benissimo che rimane sufficientemente famoso da potersi permettere di entrare nello “Studio54” e scolarsi litri di whisky con i suoi amichetti senza preoccuparsi di fare la fila. E magari ci scappa pure qualche bel pischello newyorkese. E’ così umano Elton, tanto quanto Bowie è presuntuoso, arrogante e falso. Ma c’è sempre di peggio, credo. Conosco gente che si ascolta i Placebo.
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