È sorprendente l'ostinata puntualità con cui - mentre molti maturi signori della canzone leggera riescono ancora a centellinare saporite delizie melodiche, procrastinando all'infinito il proprio canto del cigno - alcuni musicisti navigati si affannino, a suon di tonfi artistici, a smentire il detto "gallina vecchia fa buon brodo". Così - cullati tuttora dalla voce pastosa e intrisa di scotch del caro vecchio Van o incantati nello scoprire un James Taylor sempre più sottilmente comunicativo - ben poca sorpresa desta l'immancabile appuntamento con le furbe tinte di Sir Reginald Wright, in arte Elton John. Il quale, ridotto ormai a marionetta più o meno consapevole dello show biz, non sforna una cosa degna del suo altisonante nome dal lontano 1992 - anno in cui il discreto "The One" partoriva con taglio cesario il più grande pezzo del nostro in ben cinque lustri, "The North".

La storia è nota fino alla nausea: dall'orrendo e ingiustificabile esperimento di "Victim Of Love" (1979) in poi, il baronetto stenterà - pur alternando ad opere indecorose o inutili alcune sufficienze piene - a far rivivere la magia capace, nel breve lasso tra il 1970 e il 1973 (per qualcuno 1975), di inanellare perle inossidabili come "Tumbleweed Connection", "Madman Across The Water", "Honky Chateau", "Don't Shoot Me" e il doppio "Goodbye Yellow Brick Road". Supportata dal sempiterno riscontro di botteghino di pezzi come "Rocket Man", "Candle In The Wind", "Daniel" e mille altri - la memoria di questo eccelso songwriting rischia però di non rendere merito alla genialità insita nella costruzione stessa delle opere, destinate ad apparire perlopiù (almeno presso i non addetti ai lavori) come meri contenitori di prelibati hit. Questione che diventa spinosa proprio là dove questi hit scarseggiano o non sono affatto presenti: ed è appunto il caso del capostipite della gloriosa stirpe, lo straordinario trattato visuale-letterario di "Tumbleweed Connection" (1971) - che a 35 anni dalla sua comparsa strappa ancora una commossa ovazione.
Questa intensa e corposa rivisitazione dell'epopea western vede il lirismo di Bernie Taupin e le invenzioni melodiche di Elton raggiungere un grado di fusione talmente efficace da lasciare sbalorditi ad ogni ascolto. Lasciate da parte l'edulcorato pop da classifica di "Sacrifice" o "Word In Spanish" nell'abbracciare senza remore l'irresistibile rock-blues di "Ballad Of A Well-Known Gun" e "Son Of Your Father", il sublime esperimento di gospel-pop in "My Father's Gun" o la delizia west-coast di "Love Song" (cantata e firmata da Lesley Duncan). Concedetevi pure una pausa, prima di fare i conti con la terribile compiutezza melodica di "Where To Now St. Peter?", la disarmante cantabilità di "Country Comfort" (ripresa mirabilmente lo stesso anno da Rod Stewart, in "Gasoline Alley") e il crack emotivo di "Talking Old Soldiers". Lasciate scorrere nelle vostre vene il canto struggente di "Amoreena" e l'inquieto pianoforte dello straordinario boogie-rock nella conclusiva "Burn Down The Mission". E se tutto questo non basta ancora a procurarvi il capogiro, la dolce orchestra guidata da Paul Buckmaster è pronta ad affiancare l'oboe di Karl Jenkins nell'annunciarvi quei tre minuti di inarrivabile e totale perfezione che va sotto il nome di "Come Down In Time" - vertice assoluto di un'ispirazione melodica che, almeno in questi solchi, non conosce vecchiaia.

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