"Tumbleweed Connection" è l'opera più country e americana di Bernie Taupin, paroliere e amico di Elton, amico inseparabile, probabilmente. Sì, un album di Bernie, mai quanto in questo lavoro la sua influenza si sente in ogni singola traccia. I testi da fuorilegge, con parole che fuggono dagli sceriffi, fuggono anche da ogni tentativo di reale comprensione, perché risulta ancora una volta impossibile (in questo, l'album omonimo all'artista di soli pochi mesi prima, sempre firmato 1970, ci aveva ben preparati) scovare un filo logico, o magari un personaggio/i da concept. L'unico tema, che rende Tumbleweed concept, se vogliamo permettercelo, è proprio la passione per il deserto caldo, arido e secco del cuore degli States, dove gli indiani, ancora svincolati dalle riserve, correvano egemoni, e dove le tracce di civiltà più occidentale si riscontravano nelle carovane di Cowboys, pronti a scaricare un revolver addosso all'amico della sera precedente. Il brown dirty cowboy, dopotutto, richiedeva la sua parte artistica e interpretativa nel duo, se questo era tale. Bernie infatti cedeva il successo alla mente musicale e da palcoscenico che era Elton, ma lui in questo momento fungeva anche in parte da manager. Manager, sì, perché il caro paroliere ci vide lontano, com'è possibile fare solo da una di quelle distese immense magari in prossimità del Gran Canyon. Sba(n)rcare in America significava avere successo, un seguito stellare, un voltapagina che era divenuto un classico tra le promettenti star britanniche, magari per inseguire la scia del cantastorie più famoso del Minnesota, o anche per far ballare la folla come alcuni anni prima si era dilettato di fare un giovinotto dai capelli laccati, pantaloni a zampe d'elefante, e Gibson ultra-accordata ben in vista. Ma qui siamo lontani da ogni forma di rock'n'roll Madonna, giusto per rimanere, o meglio tornare, in tema Eltoniano. Qui c'è un block da 10 canzoni coinvolgenti, ma anche altalenanti in toni, alti e bassi, malinconici e spudorati. Ballate, come avevamo capito dal precedente lavoro, accompagnate da un'orchestra, quella di Paul Buckmaster, più raffinata, che sfoggia il suo talento solo quando strettamente necessario, così come Elton e il suo piano, amalgamato all'intero comparto sonoro, tranne per poche eccezioni. La prima è una ballata anche per il titolo, e si rifà ad un tizio sconosciuto, Bernie si annoia a dare nomi finti, un fuorilegge che, per sineddoche o solo per cultura del grande West, è accomunato solo ad una pistola, alla sua, un revolver presumibilmente. Ed ecco che nasce la dinamica e solenne ballata della "ben famosa pistola". Si cambia subito tono con "Come Down in Time", disponibile anche in una jazz version senza precedenti. La calma e la pace che questo brano dipinge sono unici, creano quiete anche nel più ricercato dei baroni del selvaggio west. Il terzo brano è, in un certo senso, la title-track mancata: "Country Comfort" è l'emblema di tutto l'album; un Country con la C maiuscola, un signor pezzo, per così dire, che fu degnato anche dell'attenzione di Rod the Mod, che indovinate un po', ne fece una cover, strano da uno come Rod Stewart, vero? L'aria inizia quindi a umidificarsi, afosa, accecante. Il caldo scottante aumenta di brano in brano, ci fa sudare, più caldo di Luglio, per citare un altro amico, o solo collega, di Reginald Dwight, il caro Stevie. Dopo questa spassionata dedica alla vita da Far West (pacato e quotidiano, non quello che raccontano nei Western spaghetti), si ritma tutto con la veloce e frenetica "Son of Your Father", con un'armonica pazzissima e un arrangiamento orchestrale ai più alti livelli. Sin qui l'opera appare più che buona, anzi sorprendente da un ragazzotto tutto modi da terra d'Albione come Reg, ma a chiudere il lato A del 33 giri c'è l'apoteosi dell'intera discografia della star. Non è un caso che il miglior pezzo venga posto alla fine, almeno del primo lato; era già successo innumerevoli volte. Il motivo è più che ovvio, si vuole lasciare quel silenzio catartico alla fine, quando tutto si ferma. "My Father's Gun" è davvero la perfezione della musica, almeno di quella di questo genere, di quegli anni, per persone come me. Ma anche solo obiettivamente parlando, non se ne può non riconoscere la grandezza, l'estasi dei suoni e dell'espressione artistica che qui raggiunge livelli da Monte Olimpo. L'epitaffio che un figlio realizza per il suo padre dipartito, è una tradizione che si tramanda di generazione in generazione, e così ecco che questo giovane prende le vesti del genitore, prende anche la sua pistola, e continua quello che era già stato iniziato. Un patto di sangue, una promessa, che mantiene viva la frenesia per il lontano Ovest, selvaggio, bellicoso, ma anche tremendamente affascinante. Qui non c'è il distacco parentale che sarà presente in "Levon" del Madman, piuttosto un grande legame. I cori simil-gospel sul finale rendono il brano da oltre 6 minuti coinvolgente, nonostante il testo sia semplice e breve, con un ritornello estremamente ripetitivo. Quando però si riesce a scansare la noia, ma ad impreziosire la canzone con una manciata di versi ripetuti all'infinito, vuol dire che la bellezza trascende, va oltre, e rende "My Father's Gun" un capolavoro senza tempo. Dopo la lunga pausa che porta la puntina del giradischi ad arrestarsi, e dopo aver cambiato lato del vinile, ecco che ci si presenta quello che è uno dei pezzi più ritmati e forse più "pop" di Tumbleweed. "Where to Now, St. Peter?" con questo titolo astruso parla della crisi della fede, di ogni religione umana. Un comune mortale che si trova solo, gli viene mostrata la strada da seguire, ma ha paura, poiché vulnerabile. I semi-falsetti di Elton qui introducono al ritornello, ben scandito da accordi al piano che si ripetono scattosamente. Nel complesso è un pezzo ottimo, con una intro che si ripete alla fine, a chiudere un circolo. Unica cover dell'album è "Love Song", cantata in duetto con l'autrice e corista della star Lesley Duncan, unico pezzo a far notare la totale assenza del piano. Un silenzio assordante, innaturale per gli ascoltatori di Reg, abituati a cori, orchestre e tastiere. Qui la spoglia chitarra acustica realizza un unplugged genuino, che da respiro all'opera, all'intero ascolto. Si torna poi a brani originali con la favolosa "Amoreena", raggiungendo ancora una volta picchi elevatissimi. La intro esplode con una progressione in un duo tra piano e batteria, quella di Nigel, ovviamente, che sovrasta le chitarre e la parvenza di un organo blues. La voce stanca di Reg si combina perfettamente con il tutto, per cantare di Amoreena, dea della bellezza e della purezza, in una descrizione meticolosa della sua personalità, e del suo corpo. Forse son ricordi d'infanzia, o magari di gioventù, forse solo sogni irrealizzati, quelli di rotolare per le secche praterie, e ridere sino allo sfinimento, ma dopotutto a Elton qui manca Amoreena, manca di quei momenti passati insieme, e "piange" in questa ballad ammaliante. Ci apprestiamo ad arrivare al finale con un grande componimento di Bernie, ricordavate di lui? Non se n'è mai andato, è sempre rimasto lì a scrivere testi e a mirare sterminati spazi. "Talking Old Soldiers" è il racconto più cupo del lavoro. Per toni e arrangiamenti potrebbe essere inserito all'interno di "Elton John", l'album di "Your Song", per intenderci, che a parte questa comprendeva ballate tremendamente gotiche e medioevali, un po' come questa. Il tema del West, il rockabilly decaduto però rendono il brano più che mai opportuno nel posto in cui si trova. Ci permette di riflettere sulla caducità del tempo e degli eventi della vita, ci invita ad entrare in una di quelle locande da route 66 ai tempi d'oro, letteralmente, magari durante la pazza febbre dell'oro, per scolare un boccale di birra, e poi ancora un altro, per cercare di dimenticare. Il finale è con "Burn Down The Mission", con un riff di piano che si ripete tra un ritornello e l'altro. Un pezzo che inizia con una certa calma, destinata poi ad esaurirsi nel giro di pochi minuti. "Burn it down, burn it down", fai saltare la missione, stacca tutto, scappiamo, gli sceriffi stanno arrivando, finisce così il racconto dell'Ovest di Bernie, che in tutto questo è rimasto alle spalle della star, anche nella stessa copertina, in retrocopertina, per l'esattezza. Si prende quindi il treno che ci riporta in Europa, o forse no, perché dopotutto Madman rimarrà qui, si muoverà verso la Pacific Coast, ma senza perdere quei toni country-rock che abbiamo conosciuto. Tutto si ferma quindi nella stazione (in Inghilterra, per assurdo) che è mostrata in copertina, con un Elton non ancora Sir, non ancora Hercules, non ancora Rocketman, semplicemente seduto sui gradini lignei, che resteranno lì ancora un secolo e più, così come "Tumbleweed Connection" destinato a rimanere come epitaffio di una musica finita, morta. Ma si muore solo una volta, e questo è per sempre.

Carico i commenti...  con calma