Cosa hanno in comune gli anni ’80, la musica country, Elvis Costello ed il classico “Don’ t let me be misunderstood” ? Ma questo disco, naturalmente.

Dopo alcuni esperimenti in chiave puramente new-wave infatti Costello (al secolo Declan MacManus) decide di tornare ad esplorare territori più consoni a quella sua attitudine di instancabile manipolatore di generi musicali tradizionali; in questo caso il country più genuino, ma anche una buona dose di sano rock‘n’roll, il tutto condito ovviamente da spruzzate di folk-rock cantuautoriale alla Dylan.

Il risultato è questo disco, uno dei capisaldi della canzone d’autore inglese nonché capolavoro indiscusso della maturità artistica di Costello (assieme ad "Imperial Bedroom"). Nonostante -come già accennato in precedenza- il disco viaggi più che altro su binari country-rock, le influenze sono molteplici e brani come la bellissima “Brilliant mistake” rimandano all’atmosfera squisitamente pop di “Get happy!”, nonostante la notevole calma e pacatezza con cui Costello interpreta il brano in questione appaiano quasi del tutto inedite. Altre gemme presenti sono “Indoor fireworks”, “Sleep of the just”, “Shoes without heels” (che sembra rifarsi alla tradizione country tipicamente “Nashvilliana” , come del resto anche “They’ ll never take her love from me”).
Un discorso a parte meriterebbero invece pezzi più legati al rock‘n’roll come ad esempio “Lovable” o “The people’s limousine”, che sembrerebbero usciti dalle sessions di registrazioni degli anni ’50 di Carl Perkins.

Nel disco sono presenti venti brani ma, ad essere onesti, non c’è un singolo episodio che non risulti scritto ed arrangiato alla perfezione o che riveli una scarsa cura per i dettagli; una piccola menzione meritano appunto gli arrangiamenti, scarni ed essenziali come nella migliore tradizione folk-rock, sembrano più che altro pensati per esaltare le bellissime melodie di ogni singola canzone. L’unico rimpianto che si potrebbe avere riascoltando questo disco immenso è il pensiero (veritiero) che Costello non raggiungerà mai più in futuro i fasti di queste registrazioni (se si esclude la sola possibile eccezione della collaborazione con Burt Bacharach tredici anni dopo in “Painted from memory”), ma ben presto la malinconia scomparirà lasciando spazio all’esaltazione per un lavoro che col tempo rivela uno spessore ed una freschezza come pochi altri.

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