"Chi conosce gli altri è sapiente, chi conosce se stesso è illuminato. Chi vince gli altri è potente, chi vince se stesso è illuminato." ( Tao, II sec. A.C.)
Ho fatto un sogno, uno di quelli straordinariamente vividi e pieni di paillettes, che nemmeno Marzullo se avesse preso l'acido direttamente a Haight-Ashbury nel giugno '67. Un luccichio fluorescente in una scolastica mente, l'intero inventario be-bop-a-lula\tutti-frutti acquistava hula-hoppante un perché iconografico, radiazioni post-atomiche migravano nel ventre freddo Usa-Urss, la Buick blu-cielo familiare di papà parcheggiata nel giardino verde-pisello, subordinate città fantasma invase dal fatiscente Blob-McCarthy spauracchio di quei pulciosi anti-maccartisti in fuga. Come i brutti ceffi motorizzati-Brando che alzavano tende e acceleranti Triumph dal paesello di provincia ostinata ( "Il Selvaggio" ). Insomma, sognavo qualcosa d'impudico e non necessariamente in sosta vietata accanto l'American Dream. Erano scappati tutti i buoi dal recinto, e non c'era nessun John Wayne nei paraggi con lazo e ambigua camminata-cowboy pronto a farsi rispettare. Lo sappiamo, c'è chi nasce per correre, chi selvaggiamente e altri che perdono più dei rubinetti di un monolocale a Guidonia ( Monty Clift inguaiato dalla sua innocente impudenza e tragicità in Un posto al sole). Elvis nacque Re, o più mestamente per sparare al televisore incapace di soddisfare, nel preciso istante, un sacrosanto gusto estetico. Il Pelvis bacino\ambulante, fratello-figlio unico nato nella sordida notte dell'otto gennaio 1935 in un modestissimo buco a Tupelo, stato del Mississippi. L'uomo col ciuffo scolpito da un Fernando Botero in vena di scherzi, l'anatema sessuale dell'Occidente scatenato su adolescenti in tempesta ormonale ululante. Elvis, dicevamo. Il futuro grassone Country Man Dello Spazio che volle farsi King a Las Vegas, ma questa è un'altra storia. Quella che interessa al vostro curioso scribacchino inizia circa un decennio prima del fatidico 16 agosto '77...
Elvis Presley a metà dei Sessanta era impantanato in un pericoloso guado, ormai deglutito e\o istituzionalizzato dal Sistema, inoffensivo nella sua iper-produttività d'attore canterino in commediole sterilizzate che Hollywood sfornava furiosamente ogni anno, manco fossero panini e mozzarelle di bufala. Musicalmente vecchio appena trentacinqueenne, il Nostro eroe pensò bene di darsi una scrollata da bulli, pupe e luna-park, decise che quel mondo di cartapesta, It's now or never su enormi cartelloni pubblicitari e Blue Hawaii doveva concludersi nel modo in cui ebbe origine: una profumata bolla di sapone. E ripartire, con umiltà. Consapevole che ora, lì fuori, c'è stato un nuovo e fagocitante big-bang, quattro spennacchiati ragazzotti da Liverpool, Hendrix, la psichedelica Summer Of Love e tanti, tanti capelli che reclamavano un barbiere impavido: Lui stesso, sovrano dello scricchiolante regno di Graceland. Ecco allora il ritorno immenso e sessualmente spinto, tutto di nero vestito, nello special televisivo natalizio NBC : organizzato dal colonnello Parker, fu il 68 Comeback Special, con chitarra a tracolla in mezzo adoranti fanciulle che ammiravano perdute il mitico e sexy gel-ciuffo. Sembravano ancora i vecchi, gloriosi tempi del Pelvis, dei 45 giri Blue Suede Shoes e Teddy Bear, solo che la colonna sonora stavolta aveva calde note soul-blues, pompato da una voce languidamente torrida, maestosa e animale quanto una tigre addormentata nella foresta.
Tiger Man, appunto. Ma al Re non bastava, voleva tornare alla culla del gospel, del r'n'b sensuale di fiati e voci femminili, al blues dei padri che aveva saccheggiato nel primo big-bang rock and roll, quando giovane camionista folgorò in un provino sulla Union Street Sam Philips. Prese armi e bagagli, il voluminoso codazzo dell'entourage e volò a Memphis, da buon figliol prodigo affamato di musica. Il risultato delle settimane di session in studio fu l'acclamato From Elvis In Memphis, e singoli mitologici quali In The Ghetto e Suspicious Minds. Uscito nel giugno 1969 per la RCA, e inciso negli American Sound Studios, l'album focalizzava la rinnovata verve artistica di Presley, galvanizzato dal recente successo degli show in tv e nuovamente tirato a lucido in esplosioni di standards country & western (It Keep Right On A-Hurtin' da Johnny Tillotson e I'm Movin' On, hit del '50 di Hank Snow), uggiose melodie Burt Bacharach (Any Day Now) e prototipi alt-country (la fascinosa Gentle On My Mind ). Altrove, questo coacervo emozionale dominato dal canto divino di Elvis, ha incastonate nel diadema gemme preziose e immortali come l'epico imbrunire di Only The Strong Survive, accorata preghiera tra rhythm and blues e tradizione forgiate in un'interpretazione fantastica (e quel coro di voci "...boy, oh boy..." a sciogliere calotte polari e cuori di stagno), le campane a morto in Long Black Limousine e l'Eddy Arnold rivisitato di I'll Hold You In My Heart.
From Elvis In Memphis è il viaggio al centro del cuore di un Artista creduto spento, logorato dai soldi, sorpassato dagli eventi e poi risorto, in un impeto di orgoglio e tenacia, supportato da una grande backing band con Reggie Young e Dan Penn alle chitarre, Bobby Wood al piano, Bobby Emmons all'organo, Gene Chrisman alla batteria, Mike Leech e Tommy Cogbill al basso e ben dieci coriste a pennellarne l'ugola d'oro. From Elvis In Memphis contiene probabilmente uno dei più grandiosi commiati che la Storia ricordi, il meraviglioso country-gospel benedetto da Dio, Buddha, Mao e qualsiasi altra entità superiore: In The Ghetto. E nel mio sogno ideale vorrei tanto fosse il soundtrack di un momento unico e irripetibile, l'arrivederci a un amore contrastato, l'abbraccio inaspettato a un amico perduto, la timida gioia di chi crede che "memoria" e "conoscenza" siano parole luminose e sacre.
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