Embryo, gruppo kraut-prog tedesco tra i più innovativi degli inizi anni ’70, dall’impostazione “free-jazzistica” con la passione per l’improvvisazione psichedelica e lo sperimentalismo etnico.
No-Neck Blues Band, apprezzatissimo collettivo dell’underground newyorchese, rock di improvvisazione free-form psichedelico, con incursioni folk-noise; gruppo tra i più enigmatici e misteriosi degli ultimi anni, tanto da collaborare con un mostro sacro come John Fahey.
I due gruppi in questione, simili per attitudine e indole musicale, si conoscono, si piacciono, ne nasce un sodalizio artistico con la benedizione della Staubgold, lungimirante etichetta tedesca di musica elettronica e sperimentale (nel senso più ampio del termine). Quello che ne esce fuori è un lavoro davvero molto interessante, dove prevalgono le atmosfere free-folk ed etnico-tribali, non rinunciando affatto a divagazioni squisitamente jazzistiche come nel caso di “After Marja’s Cats”, “Five Grams of the Widow” o “Die Farbe Aus Dem All”, dove chiari sono gli echi fusion della Mahavishnu Orchestra.
Tutto il disco sembra catapultarci in lontane atmosfere esotico-tribali, in una sorta di ideale rito d’iniziazione, sospesi al confine del mondo, si respira l’aria delle praterie australiane o degli sterminati deserti africani. Australia e Africa, non a caso, visto che Christian Burchard, fondatore, leader storico e deus ex-machina degli Embryo, ha viaggiato molto in quei posti alla ricerca di ispirazione, nuove sonorità e strumenti da inserire nelle sue interminabili session, non di rado collaborando anche con musicisti di quelle parti. Il disco risente maggiormente delle atmosfere Embryo, specie quelli del primo periodo, e all’attitudine sperimentalmente etnica del buon Burchard, rispetto a sonorità più rock-noise, tipicamente No-Neck Blues Band, che tuttavia sono coprotagonisti di primissimo ordine.
Quello che colpisce, non è solo l’incredibile organicità e intensità del lavoro, per altro magistralmente suonato, ma anche la sterminata quantità di strumenti utilizzati nella composizione dell’album. Vibrafoni, marimbe, didjeridoo, percussioni, corni, flauti, strumenti aborigeni a corde, archi, ma anche pianole, strani gargarismi, voci sussurrate e campanelli che, ingegnosamente e “lisergicamente” incastrati, attribuiscono al disco un alone di magia e mistero senza tempo.
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