Ossessivo. Intricato. Introflesso. Ritmi tripnotici e melodie che giocano ad arrovellarsi su se stesse. Chitarra, archi, fiati, basso, pianoforte. Encre ha una tavolozza piena di colori diversi e con questa si diverte a dipingere tetri corridoi illuminati da acide luci al neon, per poi sfumarli in un gorgoglìo di campane e campanelli, stratificati in un crescendo delirante.
Un'unica nota di pianoforte ripetuta ossessivamente aspetta l'ingresso degli archi ed insieme tessono un tappeto autistico per un lamento ai limiti dell'osceno, più simile ad uno stream of consciousness che a liriche musicali. Eccessivamente sinuoso, viscido ed oleoso come il dipanarsi della musica che lo accompagna. Il tutto così maledettamente fisico e carnale.
Un alito vagamente cool jazz cela momentaneamente il ponte proiettato verso Bristol. Gli archi sempre in agguato, nostri accompagnatori in questo dedalo. Ormai l'orientamento è perso e nemmeno gli orpelli elettronici aiutano a trovare il bandolo della matassa. Dietro l'angolo il solito suono grasso del violoncello, pronto a rincorrersi con il violino in un loop mortale ai limiti della paranoia. Labirintite pura.
 
Yann T., come un suo più famoso conterraneo. Solo che questo ragazzo di cognome fa Tambour e suona e programma i suoi languori in maniera spiazzante, rimescolando memorie vicine (un certo non so che di trip hop) e lontane (reminescenze jazzistiche) in un maelstrom di note. Un miscuglio bastardo, suoni vischiosi che si attaccano addosso come l'aria afosa di una serata pre-estiva.
 
Una salutare nuotata in fonti sulfuree.

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