“Copre di buio le città, disegna ombre e falsità.”
Questa fiabesca riflessione su Il male proviene dalla seconda traccia dell’unico prodotto discografico dei padovani Eneide, reperto storico registrato nel 72, a cura della Trident, casa discografica di tutto rispetto, che nei primi anni settanta pensò bene di dare alle stampe capolavori del rock progressivo come l’album omonimo dei Biglietto per l’inferno o il “celebre” Dedicato a Frazz dei Semiramis.
Rigorosamente messi in luce grazie ad un tour con i Van Der Graaf Generator, gli Eneide ebbero l’occasione d’incidere il loro primo album, che però fu pubblicato solo nel 1990, probabilmente perché la Trident preferì alla fine investire su altri lavori, forse a causa di problemi finanziari che la costrinsero poi a chiudere i battenti, già nel 1975. L’album fu quindi autoprodotto e lanciato nel mercato in tiratura limitata.
Ora, se pensiamo che due artisti del calibro di David Jackosn e Peter Hammil, fossero rimasti in contatto con la band fino alla metà degli anni novanta, e che avessero addirittura considerato una possibile collaborazione con gli ex Eneide, in un progetto musicale chiamato Il sogno di Oblomov (del quale esistono due pezzi pubblicati nel 2011, come bonus track nell’edizione CD di Uomini umili popoli liberi), diventa un importante dato di fatto che serve a mettere in luce l’indubbia qualità musicale di questo lavoro. Dieci pezzi, per trentacinque minuti di musica, atti a far vibrare nei nostri timpani questo piccolo tesoro del rock progressivo italiano.
La struttura dei brani è piuttosto fruibile, tanto che il disco potrebbe perfino essere considerato un punto di partenza per tutti quei novizi che vorrebbero avvicinarsi a questo stile musicale, ma che prima avrebbero bisogno di un “training acustico” per avvezzarsi più spontaneamente alla complessità compositiva spesso proposta dal genere; al contempo però, riesce a soddisfare chi è già esperto di queste sonorità. I testi, in chiave onirica, pullulano d’immagini astratte, cosmiche e mitologiche che parlano di libertà e di lotta tra il bene e il male; a tale proposito, il refrain della title-track sprigiona una carica incredibile, supportata nelle parti strumentali dalle guizzanti note del flauto traverso, prova tangibile che in quegl’anni Ian Anderson non stava sgambettando invano da un palco all’altro. Ottime anche Non voglio catene (unica suite del disco) con un sublime lavoro di tastiere per Carlo Barmini, e la già citata Il male, costruita sui riff scarni ed incisivi di Gianluigi Cavaliere e sulle roboanti battute di Moreno Diego Polato.
Dopo aver citato i “masterpieces” è d’obbligo ricordare che il disco, librato tra brani cantati e tracce strumentali, è di pregevole fattura, perciò merita almeno un ascolto. L'album è di ardua reperibilità, ma può essere ascoltato in rete. Questo è Uomini umili popoli liberi: schietto e romantico cimelio di un’Italia perduta.
Federico "Dragonstar" Passarella.
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