Alcune volte cerco un luogo dove poter stare in pace, perché là fuori fa troppo freddo. Non fraintendetemi, io adoro l'inverno e il clima rigido, ciò che intendo è riferito a quella sensazione di sterilità autunnale che ti si attacca addosso come un cappotto troppo stretto, talmente aderente da togliere il fiato e farti sentire in un continuo stato di agitazione e disagio. Purtroppo certi abiti ho dovuto indossarli molto spesso nel corso della mia vita, e in questo periodo sembra che mi si siano cuciti addosso come una seconda pelle, accompagnandomi ovunque io vada. Vorrei scappare, correre come se avessi dei maledetti cani infernali che mi alitano alle spalle, allungando il passo fino ad allentare le articolazioni delle gambe e sorpassare il mio stesso respiro, che nel frattempo si condensa nell'aria come un nuvola trasparente di vapore.

C'è un luogo in particolare in cui vorrei perdermi, un posto irreale dove il calore ti entra dentro senza bruciarti, mentre una fresca brezza ti accarezza la pelle e ti bacia delicatamente sulle labbra, senza chiedere nulla in cambio, solo così... per fare una cortesia. Lo so che tutto ciò non esiste, però mi piace pensare che quella zona magica somigli un po' all'immagine ritratta nella splendida copertina di "The Words And The Days" del quintetto di Enrico Rava, uno dei jazzisti italiani più noti e conosciuti all'estero, capace di attraversare indenne più di quarant'anni di musica senza ripetersi e, soprattutto, rimanendo sostanzialmente se stesso. Il suo fraseggio, così gentile e allo stesso tempo capace di arrampicarsi verso una vetta che solo lui vede, si insinua sotto quel manto opprimente, minandone le basi della sua stessa esistenza, infatti come può esserci una prigione senza il prigioniero? Io non sono più lì, ora sono seduto sotto uno di quegli alberi, mi godo l'ombra e ascolto le note del pianoforte di Andrea Pozza, che punteggiano l'aria come lontane comete chiare ed evanescenti, mentre le bacchette di Roberto Gatto accarezzano le foglie con delicatezza e precisione, quasi fossero brina mattutina; nel frattempo la terra partecipa al sogno, vibrando dolcemente al suono del contrabbasso di Rosario Bonaccorso, assaporandone ogni sussulto e guizzo. Vicino a Rava, direttore dello spettacolo ed esso stesso spettatore, c'è anche Gianluca Petrella, l'altro cantastorie, che col suo trombone attraversa tutto questo splendido tessuto sonoro, completandone gli spazi ed assicurandone le cuciture, affinché resistano anche al gelo della notte.

Alle spalle di tutti loro, un po' in disparte, c'è infine Manfred Eicher, che, sbirciando dietro il sipario, osserva quel tipo seduto sotto l'albero, lo vede mentre chiude gli occhi e respira ogni suono, poi si ritrae dietro le quinte, consapevole di aver allestito un altro splendido spettacolo. "Le parole e i giorni", così recita il titolo di questo album, ed è singolare vedere come i suoni valgano più di mille parole, forse perché sono scevri di quelle falsità che ogni giorno ci vengono buttate addosso e spacciate per educazione o senso civico; uno strumento racconta solo se percepisce un'essenza in chi lo usa, altrimenti emette solo delle note, vuote come quelle persone che, pur parlando per ore, producono solo sterili fonemi. All'inizio vagheggiavo di un rifugio, ed è proprio una sensazione di santuario che questi grandi musicisti sono riusciti a riprodurre nel loro lavoro. Ogni volta che metto il disco è come se bussassi rispettosamente ad una porta che, di sicuro, mi verrà aperta...

L'unico problema è che prima o poi dovrò abbandonare quell'oasi, indossare il cappotto troppo stretto e tornare al freddo, anche se ho la consapevolezza che quel luogo è sempre lì, basta poco: aprire una custodia di plastica e poggiare un cd su un carrello scorrevole, poi finalmente si può smettere di piangere. Enrico Rava Quintet: Enrico rava: Trumpet; Gianluca Petrella: Trombone; Andrea Pozza: Piano; Rosario Bonaccorso: Double Bass; Roberto Gatto: Drums.

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