Era stato un video su youtube a frenare la mia attesa. Quando lo vidi stavo per collassare. Una giovane donna, dai tratti orientali, con un volto che celava un’arcana malinconia, sussurrava parole in giapponese. Nel mezzo, alcuni spezzoni del video di una canzone (che dopo avrei scoperto essere “Worn Heels And The Hands We Hold”). Il nuovo disco degli Envy era finito, terminato, registrato. Stava per essere pubblicato. Fantastico, pensai.

Ora, mi rendo conto che questa recensione potrebbe trarre in inganno il lettore, o quantomeno essere fraintesa. Per evitare ciò occorre partire da un semplice presupposto: io sono un fan sfegatato degli Envy. Ho perso il conto di quante volte ho ascoltato album come “A Dead Sinking Story”, “All The Footprints…”, “The Eyes Of Singles Eared Prophet”, e anche “Insomniac Doze”, che mi ha fatto sognare in non pochi momenti. Dire quindi che “Recitation” mi ha lasciato un sottile amaro in bocca non significa affatto che io voglia minimamente svalutare quest’opera; del resto il voto finale parla da solo. Significa semplicemente che mi sarei aspettato qualcosa di… diverso. Ma di questo ne parlerò a fine recensione.
Insomniac Doze”, si diceva. Il disco pubblicato nel 2006 dal combo nipponico spostava di molto i lidi del loro sound, verso un post-rock che solo a volte richiamava lo screamo degli esordi, e comunque più nella sensibilità che non nei suoni. Niente più violenza e brani disperati, sparati a mille come proiettili al cuore. Quel disco era il vero spartiacque tra i “vecchi” e i “nuovi” Envy, e bisogna partire da qui per comprendere come Recitation” prosegua nel percorso già intrapreso 4 anni fa.

I nuovi Envy prevalgono, dunque. Eppure qui qualcosa è cambiato. Si è evoluto, più che altro. È come se avessero voluto stilare un compromesso, un patto di sangue tra le loro due correnti più forti, benché contraddittorie: da un lato una drammaticità profonda e sentita, che sfiora l’epicità in certi momenti, e dall’altro una dolcezza compositiva che sfiora nel lirismo ambientale di famosi act post-rock come Mono, Ef, Explosions In The Sky.
Il trailer era solo un antipasto del disco, e questo lo ritroviamo nell’opener “Guidance”. Eterea, delicata (forse anche troppo). E qui tutto diventa chiaro e lucido: niente più violenza e disperazione. Gli Envy ora vogliono esplorare un nuovo volto dell’anima: quello più dolce e intimista. E così “Last Hours Of Eternity” è una ballata nell’eterno, un’onda di melodia post-rock che ricorda molto da vicino i colleghi orientali Mono e il loro modus operandi. Le sue dolci spirali introducono uno dei pezzi forti dell’album, “Rain Clouds Running In A Holy Night”, con un giro di basso che si muove agilmente tra i territori ambientali e introduce poi le distorsioni delle chitarre. È una canzone che non mi stancherò mai di ascoltare: travolgente, bellissima. Un attacco emotivo come solo loro potevano scriverlo, prendendo però più ispirazione dalla scuola americana. Eppure non ne condivido parte finale, una cavalcata che a mio modo di vedere spezza quell’atmosfera sognante che si era creata. In ogni caso, la canzone è un buon punto di partenza per capire la virata stilistica intrapresa dagli Envy; anche “Dreams Coming To An End” procede in questa direzione, facendo leva sull’aspetto più “emo” del gruppo e sulla voglia di risultare molto più “romantici” e sensibili di quanto non fossero precedentemente. Ottime melodie e riff coinvolgenti, ma nessun lirismo. Per questo dovremo aspettare “Worn Heels And The Hands We Hold”, introdotta dal delizioso arpeggio acustico “Incomplete”. Potrebbe essere definita come la portata principale dell’album, e non per niente ci è stato girato un video. Possente, lirica, passionale. Una canzone che non arriva ai livelli emotivi di canzoni composte in passato, eppure riesce a lacerare qualche pezzetto del nostro cuore, avvolgendoci in un vortice tormentato di emozioni che si eleva fino quasi all’autolesionismo e all’auto-citazionismo. Le poesie giapponesi decantate dalla voce di Fugakawa a fine brano dichiarano appieno l’intento “poetico” che il gruppo ha voluto intraprendere con questa canzone (particolarmente rappresentativa), e con l’album in generale. Fantastica, dicevo. Eppure… Non è ancora un capolavoro. Le sue accelerazioni lasciano spiazziati e le sue atmosfere avvolgono, eppure quella scintilla magica che ritrovavo in canzoni come “Chain Wandering Deeply” qui non c’è. È altra pasta.

Per contro, questa elevazione spirituale viene attenuata da altri momenti più vicini a un semplice gusto ambientale, come in “Light And Solitude”, dalle atmosfere vicine al post-rock dei nostrani Giardini di Mirò, sostenute da una litania di sonorità quasi “natalizia”, che avrei visto bene come colonna sonora dei momenti più emotivi di qualche manga. In altri momenti invece quell’esplosione ritorna a galla, come in “Pieces Of The Moon I Weaved”, più propriamente “envyana” nelle melodie e nelle intensioni.
Ormai, insomma, l’intento dell’album è chiaro. La successiva “A Hint And Capacity” non fa che confermarlo, con pennellate di post-rock che più ambientale non si più, ma sostenute da quella loro tipica drammaticità che per l’occasione diventa più dolce, più soffusa, più delicata (spezzata, come ovvio, dai chitarroni man mano che il brano raggiunge il suo crescendo). Eppure a questo punto non sento più la stessa carica emotiva. È come se il gruppo fosse un po’ troppo sicuro dei propri mezzi e puntasse con insistenza sempre sugli stessi punti, senza cercare soluzioni alternative per spezzare in qualche modo la continuità del brano.

Recitation” è insomma un disco che scorre senza intoppi, un unico e dolcissimo viaggio, ma la sua linearità alla lunga finisce quasi per stancare. “A Bred Clad In Happiness” fa tirare un po’ il fiato, con delle belle melodie sostenute che poi sfociano in un attacco emozionale degno del loro talento. Eppure, lo ripeto, per quanto questi brani siano meravigliosi, non convincono come quelli dei precedenti dischi. Troppa insistenza su quei giri, su quelle melodie che cercano di ricreare sempre lo stesso effetto.
Ma che volete che vi dica? A me queste melodie fanno impazzire lo stesso, e anche se mi lasciano leggermente più indifferenti a quelle dei precedenti album, gli occhi un po’ lucidi mi vengono comunque. Ho avuto quasi l’impressione che se avessi ascoltato questo disco senza conoscere minimamente gli Envy lo avrei considerato un capolavoro inarrivabile, pregno di sentimento, emozione, misticismo. E che invece sia proprio il mio amore per il gruppo a impedirmi, paradossalmente, di gustarlo appieno.

Come dedurre quindi come conclusione? Da un certo punto di vista, questo “compromesso” tra due estremi (epica drammaticità e dolce lirismo, accantonando la violenza degli esordi) si è trattato di una scelta intelligente; quello che non mi ha convinto è stato piuttosto “il modo” in cui quest’idea è stata convertita su disco.  In altre parole, per quanto io abbia goduto nell’ascolto di quest’album, non ho fatto a meno di notare alcuni difetti stilistici che mi hanno bloccato nell’abbandonarmi totalmente ad esso. Alcuni suoi frangenti non appaiono ispirati al 100%, come nei dischi precedenti, ma piuttosto all’80%. È come se avessero avuto delle intuizioni geniali, com’era lecito aspettarsi, ma non le abbiano sviluppate al meglio dei propri mezzi, lasciandole talvolta in un “limbo” di melodie che, per quanto belle, non hanno la stessa forza emotiva di quelle che le attorniano nello stesso pezzo. I brani, insomma, emozionano quasi per intero. È quel “quasi” il problema: i giapponesi sviluppano idee fantastiche, uniscono epicità, melodia, lirismo compositivo, ma sembrano non avere sempre la stessa ispirazione necessaria a completare le composizioni, che vedono quindi la comparsa di soluzioni troppo semplicistiche e molto meno ispirate rispetto a quella che è la media, estremamente notevole, nella musica degli Envy.

Recitation” è un disco splendido (com’era ovvio), leviamoci il dubbio. Ha tutti gli elementi giusti per essere il degno successore di “Insomniac Doze”. Ma NON è il capolavoro che io, come fan sfegatato, avevo atteso. È questo che mi ha lasciato deluso. Speravo di "superare" il 5 di "A Dead Sinking Story" e invece mi devo accontentare di un “semplice” 4,5 (che Debaser mi costringe ad arrotondare per difetto, maledetto). Qualcuno a questo punto dirà (a ragione) “sticazzi”. Eh beh, lo dico anch’io. “Recitation” rimarrà ancora a lungo nel mio lettore, e la capacità compositiva degli Envy è fuori discussione, è enormemente sopra la media di moltissimi gruppi screamo/post-rock che cercano inutilmente di imitarli. Però quelle intuizioni, quella genialità, quell’eterna “scintilla” che aveva fatto di alcune vecchie composizioni delle pietre miliari nella storia dello screamo giapponese, questa volta, non ci sono. Cosa prevedibile, dal momento che la band è ormai sulla scena da anni.

Tuttavia, lo ripeto, sticazzi. Recitation” è un gran disco. E poco importa se non è il capolavoro degli Envy, e se la sua qualità può apparire un po’ inferiore ai dischi precedenti. L’amaro in bocca lo sentirete solo se siete tra quella stretta cerchia di innamorati del gruppo giapponese, come appunto il sottoscritto. Tutti gli altri avranno invece tra le mani un disco che sarà in grado di scaldare i loro cuori e le loro anime per molto, molto tempo.
Comunque, disco fantastico e CALDAMENTE consigliato a tutti.
Bentornati! 

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