Era una prima, e non doveva esserla. Sì, perché la prima doveva svolgersi altrove, e tempo fa, ma purtroppo Enzo Jannacci ha avuto un problemino serio ad un polmone e s’è beccato un surreale periodo di ricovero in ospedale. Uscito, e “quando esce di lì uno non è più come prima…” , si è trovato in questa triste e difficile città nebbiosa ad affrontare la prima del suo malinconico e bellissimo spettacolo. Ma dire malinconico, oltre che assolutamente giusto, può apparire oggettivamente riduttivo, dal momento che tutto ciò che Jannacci tocca riesce ad essere triste e allegro allo stesso tempo, malinconico e ironico. E la sua è una tristezza bella, una tristezza che ti fa sentire bene, che conferma il principio che una canzone triste, quando è bella (si pensi a De Andrè, a Endrigo, fino ad alcune cose di Capossela) è sicuramente molto più ricca, ma di fondo molto più allegra di una cretinata saltellante da festivalbar.
E quindi, dicevamo, era una prima. Una prima in cui l’autopresa per il culo ha tenuto banco più che mai. In cui Jannacci ha fatto perfettamente la parte del bollito come solo lui sa fare. Ma fondamentalmente più in palla che in tutte le esperienze live precedentemente vissute. Qui, infatti, tutto torna perfettamente: la voce, l’intonazione, la banda capitanata dall’ottimo figlio Paolo, le improvvisazioni, i tempi dei monologhi, l’atmosfera bella di quell’Italia che non c’è più. Che, anzi, c’è, ed è nella voce di Enzo e nella testa e nelle emozioni di chi sa e ama capirlo. Sicuramente Jannacci ha ormai trovato la sua dimensione. Ovvero la dimensione di un cantautorato puro. Da quando un’etichetta indipendente e coraggiosa l’ha (ri)pubblicato, lui ha capito che la gente che l’amava lo amava per quel cantautore puro e malinconico che era, ovvero quello che raccontava figure tristi e nebbiose di una Milano che forse non c’è più e che forse per questo ci sarà sempre. Non per quel cantauore vagamente triste ansioso di trovare una ribalta non sua tra i fiori di inutili e patetici sanremi.
È infatti bastato tornare a cantare in dialetto e a scrivere canzoni schiettamente cantautorali per costruirsi quello di cui un artista oggi ha bisogno come del pane: uno zoccolo duro. E lo zoccolo duro di Jannacci siamo noi, quelli che non hanno mai dimenticato “Giovanni telegrafista”, quelli che tengono cari i vecchi vinili smadonnando contro i pirla che non capiscono che andrebbero tutti ristampati in ciddì... quelli, insomma, che sanno che Enzo Jannacci è uno dei più grandi cantautori che la nostra scuola italiana (una delle scuole cantautorali più importanti di sempre) abbia mai avuto. Venendo al concerto, va detto che lo stesso è costituito quasi eslcusivamente dai bellissimi brani dialettali dell’ultimo disco "Milano 03. 06. 2005" , vecchie perle recuperate e splendidamente rivestite. Solo alla fine c’è una coerente concessione a qualche classico giustamente famoso come “Ho visto un re”. Ma neppure una traccia né di “Son sciopaa” o di “Se me lo dicevi prima”, né la facile concessione di “Vengo anch’ io no tu no…” e purtroppo neppure la lacrima seventies di “Vincenzina” (nella quale, francamente, speravo non poco).
Due monologhi scritti, uno sull’ Irak visto da un bambino e uno su un Everest simbolico di mancanza d’aria e d’altro. Il resto tutto meravigliosamente improvvisato, soprattutto col tema portante del ricovero e delle conseguenti e godute dimissioni, in un crescendo dissacrante divertentissimo e di grande intelligenza. Una battuta su tutte, e ci capiamo al volo: “se proprio dovete tirarmi qualcosa… tiratemi del cortisone”.
Jannacci è vivo e splendidamente in forma. Ed è in giro per l’Italia. Fate voi.
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