Sto ascoltando in questo momento, per l'ennesima volta da quando l'ho acquistato, il magnifico CD1 del doppio album "The Best" di Enzo Jannacci, disco che definire "antologico" sarebbe veramente troppo riduttivo, uscito per Ala Bianca alla fine del 2006 e sfortunatamente confusosi troppo presto (nonstante alcune recenti apparizioni di Jannacci nei programmi TV degli amici Fabio Fazio e Cochi & Renato) nel diluvio apocalittico di cofanetti doppi e tripli - questi sì antologici, nel senso più convenzionale del termine - di altri artisti, tutti sorretti da case discografiche ben più grosse e potenti della sua.
Ho un debole per il CD1, ma non già perché il CD2 non sia bello a sua volta, ché anzi esso risulterà per intero di incredibile impatto emotivo nelle valutazioni di chi - a differenza della sottoscritta - non possieda la più recente produzione in studio del grandissimo cantautore milanese, ossia quella uscita dal 2001 in avanti per la benemerita Ala Bianca di Toni Verona, piccola casa discografica che ha l'enorme merito di averlo restituito a nuova e frizzante vita discografica, e ciò dopo le delusioni cocenti fattegli subire dalle majors; prima fra tutte la Sony, che voleva solo far uscire delle "compiléscion", come le chiama Jannacci, obbligandolo a tenere tutti gli inediti nel cassetto "perche tanto tu non vendi più". Imperdibile al riguardo è la dedica al vetriolo vergata a mano da Jannacci nel booklet del primo suo album "della rinascita", ossia "Come gli aeroplani", uscito per Ala Bianca nel 2001 (seguito da "L'uomo a metà", Ala Bianca, 2003, e "Milano 3. 6. 2005", Ala Bianca, 2004), ed indirizzata senza troppi veli a quegli ottusi dischivendoli multinazionali, i quali stavano per ammazzarne senza rimedio l'indomita genialità artistica.
Consiglio "The Best" a tutti indistintamente, jannacciani della prima ora e neofiti, senza distinzioni, perché questo decisamente non è "il solito cofanetto", benché la mera lettura del suo titolo, forse troppo banale, possa indurre a pensarlo.
E' molto di più.
Le canzoni non tratte dagli album Ala Bianca del periodo 2001-2004 (una ventina circa, sulle 35 totali) risultano infatti essere state interamente riarrangiate ex novo da quel mostro di bravura che risponde al nome di Paolo Jannacci (adoro, tanto per citare una delle sue innumerevoli finezze, l'uso del basso in una "Giovanni telegrafista" divenuta modernissima nonostante i suoi quasi 40 anni sul groppone), ed interamente ricantate dal papà in grande spolvero (con la sua voce da 71enne, paradossalmente molto più limpida, potente e - sì - anche assai più intonata rispetto a quella giovanile con cui l'Enzo incise i brani originali!).
Quest'operazione di profondo maquillage è tutt'altro che un stantio espediente commerciale volto a riciclare e rifriggere "le solite cose" (come troppo spesso accade con altri artisti). Anzi, dirò di più: ci voleva proprio. Molte di queste canzoni - fra cui la stessa pur relativamente recente "La fotografia", brano altamente drammatico, pieno di pathos ma anche di umanità, che ti arriva dritto dritto come un pugno avvolto nel guanto del dolore (oltretutto vinse il Premio della Critica al Festival di Sanremo 1991), esistevano infatti, prima, solo all'interno di vinili da tempo fuori catalogo, vergognosamente mai ristampati su CD; era semplicemente un delitto non farle conoscere un po' di più, in giro.
Possiamo così riapprezzare "Dona che te durmivet" (delicato ritratto, femminile ma anche quasi protofemminista, apparso per la prima volta nell'album "Sei minuti all'alba" del 1966; inspiegabilmente non rivisitata da Enzo nel suo bellissimo "Milano 3. 6. 2005" ma da lui riproposta, assieme ai brani di quel disco, nel recente tour teatrale delll'inverno-primavera 2005-2006), ma in un'inedita versione tradotta per la prima volta dal meneghino all'italiano con il titolo di "Donna che dormivi".
Possiamo così, del pari, riassaporare "La Costruzione", intensissima versione di uno dei capolavori di Chico Buarque de Hollanda, cantata in italiano anche da altri artisti (ad esempio la Vanoni); un pezzo che appare totalmente affine alla poetica di Jannacci, al suo "bestiario" di umanità dolente, sfortunata, modesta, ignorata, con quel pover'uomo che muore cadendo da un'impalcatura come un pacco flaccido, fluttuando come un passero, disturbando il traffico … La prima volta in cui sentii questa canzone fu per l'appunto nella versione della Vanoni, e non mi emozionò per nulla - ancorché il tema oggetto del brano fosse quanto di più drammatico - per il tocco eccessivamente algido conferitole dall'interprete. Con la versione jannacciana accade l'esatto contrario, e uno sente che sarebbe potuto benissimo essere uscita dalla sua penna, dato che, per certo, gli sembra uscire dal cuore.
Poi c'è una "Quelli che… " aggiornata, riveduta e corretta con nuove battute corrosive ed esilaranti, tutte da scoprire. E via deliziandoci.
Farei notte parlando di questo disco strapieno di cose belle, pensate e pensanti, altamente stimolanti, musicalmente scintillanti… ma anche sul fronte degli inediti non si scherza mica: al di là di una straordinaria "Bartali" "da osteria" collocata in apertura del CD2 , cantata in coppia da Enzo e dal suo autore Paolo Conte (142 anni in due il prossimo 3 giugno … e non sentirli!), trovo in particolare che "Rien ne va plus", brano di apertura del CD1, durissimo e commovente ad un tempo, sia un vero capolavoro, nel solco dello Jannacci più autentico e forse meno conosciuto dai più: quello non giullaresco, non irriverente bensì dolente ed accorato nel cantare - senza mai indulgere ad inutili sofismi ed ermetismi - dell'avventura e della disavventura del vivere. Una vita, questa cantata da Jannacci nel brano di testa, che dapprima è vista come una "bella fontana", ma poi, mano a mano che viene vissuta, si trasforma - in virtù di una sorta di perverso morphing maledettamente reale - in qualcosa d'altro, proprio mentre la biglia di quella roulette che é la vita stessa continua a girare, senza capire che "tu come storia non vai più", culminando - con forza dirompente - nella giustapposizione tra una di quelle giulive espressioni pescate negli archivi del più retorico modernariato telecronachistico ("Grande Pantani scappa in salita/Va via come fosse ad una gita") e l'urlo doloroso, rabbioso, subito susseguente, di Enzo ("Brutta puttana che é 'sta vita!/Vive tra mosche e gelsomini … "), il tutto espresso mediante una simbologia dell'immediato che risulta più forte ed efficace di mille discorsi astratti e di mille dissertazioni filosofiche sulla precarietà dei destini umani.
Vi invito dunque all'acquisto ed all'ascolto di quest'opera, conservando sempre, nel cuore, il pio desiderio di assistere un giorno alla ristampa su CD di almeno alcuni tra gli innumerevoli straordinari "vecchi" album jannacciani, mai pubblicati - e davvero ciò sembra incrediibile, anche solo a scriverlo qui - se non in vinile, ormai troppi anni fa.
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