Per un poco tornerò alle origini, a parlare delle opere del nostro caro Enzo di cui nessuno ha ancora parlato e che meriterebbero molta più attenzione di quella che tutti gli danno. L'altra volta ho parlato de La mia gente, un album in cui esce fuori tutta la delusione di Jannacci che provava in quel periodo (50 anni fa....madò!). Quest'oggi torniamo indietro di qualche annetto, precisamente nella primavera del 68: Enzo Jannacci è all'apice della fama grazie al 45 di Vengo anch'io no tu no, che diventa in breve tempo un tormentone assoluto e l'album omonimo è ai piani alti delle hit parade. In effetti c'è poco di cui essere stupiti: Vengo anch'io no tu no è un album raffinato, scritto e arrangiato in modo egregio e (per i canoni dell'epoca) commerciale, ma senza perdere tutto quello che Jannacci ha fatto prima.

Per capire al meglio come si è svolta l'evoluzione di Jannacci andiamo a vedere il brano che meglio degli altri unisce il passato musicale di Jannacci con l'abito che in quest'album ha indosso, La sera che partì mio padre: un brano struggente, arrangiato in maniera minimale e che non sovrasta ciò che è il messaggio,ovvero raccontare gli orrori della guerra attraverso le gesta del padre (figura fondamentale per la vita di Enzo) morto in guerra; la tematica non è di certo nuova, già due anni fa con Sei minuti all'alba Jannacci ha parlato della guerra, solo che stavolta Enzo lo fa con una nuova verve in cui tende ad esasperare il lato drammatico della vicenda (oltre che cantandolo in italiano, rendendolo magari più accesibile sotto una prospettiva lirica). Il resto dell'album prosegue su queste coordinate, andando a raffinare le proprie canzoni senza snaturare la sua poetica ma anzi riesce pure a trovare l'equilibrio perfetto tra drammaticità e divertimento che in precedenza non aveva mai raggiunto. Senza contare poi che il milanese viene ridotto all'essenziale, quasi scompare in questa manciata di pezzi e ciò aiuta non poco a cogliere in pieno il messaggio (senza nulla togliere ai pezzi milanesi eh!).

Pescando tra le tracce quelle che balzano subito all'occhio sono Ho visto un re e la title track e che fanno parte del filone più spassoso dell'album: la prima nasconde sotto una forte criticale sociale che pare la gente abbia colto, dato che in quel 68 veniva cantata nelle piazze usandola a fini di protesta; la canzone ebbe si fortuna, ma al contempo fu censurata brutalmente (ricordate il caso Canzonissima, di cui ho già parlato precedentemente?). La seconda, come ho già detto, è diventata un tormentone e continua anche oggi ad esserlo e il bello è che nessuno l'ha mai capita, prendendola come un giochino nosense quando in realtà nasconde dietro la storia di un emarginato (tipo il barbone con le scarpe del tennis) che viene continuamente rifiutato dal gruppo, dalla massa, che continua a deriderlo anche quando viene celebrato il suo funerale. Insomma, altro che giochino nosense.

Ma se dobbiamo trovare il caposlavoro, come si suol dire, la scelta ricade su Giovanni telegrafista, che reputo non solo la più bella dell'album ma anche la canzone migliore di Jannacci: è la storia di Giovanni, un telegrafista a cui non vengono date particolari caratteristiche, che si innamora di una ragazza chiamata Alba e lui scorre in lungo e in largo per cercarla salvo poi scoprire che essa si è sposata. La capacità descrittiva di questo testo è qualcosa di unico, può essere colt sia come una storia surreale e nosense sia come storia triste e questo è uno dei grandi pregi di Enzo, far ridere e piangere usando le stesse parole e lasciando all'ascoltatore il ruolo di decidere cosa vuol significare. Una canzone fumosa, in cui tutto è possibile, anche essere i protagonisti: difatto Giovanni non ha particolari, è solamente un uomo qualunque ed è facile immedesimarsi in questo personaggio.

Vorrei far notare inoltre la presenza di La mia morosa la va alla fonte, messa a metà dell'album. Essa nel lotto ricopre un ruolo abbastanza marginale seppur scritta insieme a Dario Fo, però attorno a lei circolano degli avvenimenti che la rendono interessante: uno tra questi è proprio la famosa storia che riguarda anche Via del Campo di De Andrè ma sicuramente i più di voi la conoscieranno già: Faber prese la musica di La mia morosa per la sua Via del Campo senza chiedere il consenso ai due autori e questo non piacque molto a Fo, che non approvava l'uso della sua musica per la canzone di De Andrè ("la canzone è già poetica abbastanza", dichiarò Fo). Jannacci invece la prese con più filosofia, risolvendo questo diguido col tempo. Anzi l'apprezzava pure, dato che nel 2001 reinterpretò Va del Campo, un po' anche per fare un omaggio a Faber.

In questo album vengono inoltre scritte le prime cover di canzoni brasiliane, che ritorneranno molto spesso in futuro con 9 di sera e La costruzione:la prima di cui parlerò è Pedro Pedreiro, brano che nonostante sia stato scritto da Chico Barque Enzo riesce a renderlo completamente suo. La storia di Pedro Pedreiro rientra nel filone jannacciano degli emarginati, con Pedro che aspetta il tram pieno di pensieri che corrono come cavalli fragorosi nella testa. La disperazione della pietà, poema scritto da Vinicius de Moraes, assume un registro totalmente opposto: in sintesi il brano è una serie di preghiere affinchè il signore abbia pietà per gli esseri umani, prendendo per la prima volta il modello "ad elenco" che sarà lo scheletro di un grande brano come Quelli che. Ma anche Giovanni telegrafista è di origini brasiliane, visto che il testo è la traduzione di Jolao, poesia scritta da Cassiano Ricardo, ma di cui ho già parlato precedentemente.

Nell'album ci sono comunque un paio di brani che sono buttati in mezzo come riempitivi, comincierei citando Hai pensato mai, brano di Lino Toffolo che nella versione di Jannacci puzza terribilmente di retorico e che è palesemente messa nel mucchio per essere il classico brano commerciale (per il tempo si intende). Poi c'è Domenica 24 marzo, che non è esattamente malaccio però è messa subito La sera che partì mio padre e che, essendo entrambi brani che parlano della guerra, non regge il confronto risultando meno personale della precedente e perdendo pure molta di quella coinvolgente malinconia. Infine La ballata del pittore nonostante abbia buoni spunti e una buona storia non rende appieno il messaggio, quasi una Giovanni telegrafista in minore azzarderei (contando il fatto poi che è un pezzo neanche scritto da Enzo, come altri pezzi minori dell'album, fa capire che forse è meglio lasciare carta bianca a Jannacci certe volte).

Però...manca ancora un'ultimo pezzo, il gran finale, che riassume a pieno cosa Enzo volesse dire per tutto questo tempo. Non finirà mai può essere considerato in due modi, andando a vedere il pezzo in chiave romantica: Enzo ci fa vedere cosa per lui è l'amore, una ciliegia senza nocciolo, un pulcino senza ossa, una storia senza fine, per alla fine trasformare tutto ciò che da al suo amore in una promessa eterna, in una storia che nonostante sia piena di difetti promette di non far finire mai. Oppure questa canzone può essere un trattato di intenti che Enzo promette alla musica: cose che la gente considera incomplete, ma che si rivelano alla fine canzoni adatte a resistere nel tempo. Questo è ciò che Enzo ha tentato di fare nella sua carriera, creare canzoni che non venghino dimenticate e che possano accompagnare in eterno le persone.

Enzo nella sua vita ha fatto storie senza fine e io gli voglio dire grazie che non abbia mai deciso di scrivere un finale, di mettere il punto di fine alla sua creatività e di continuare per 50 e passa anni regalando agli ascoltatori autentiche perle e credo di essere abbastanza sicuro nel dire che se Enzo avesse vissuto altri 50 anni avrebbe continuato a sfornare altre grandi canzoni. Viva Jannacci, sempre!

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