L’IMPORTANZA DELL’ABBANDONO

“… B.B. King era un faro per tutti noi che amavamo quella musica. Lo ringrazio dal profondo del mio cuore. Se non conoscete il suo lavoro, vi invito ad ascoltare il suo Live At The Regal, perché è da lì che, per me che ero solo un giovane musicista, tutto ha avuto finalmente inizio…” (riportate le parole di Eric Clapton dopo la morte di B.B. King nel maggio 2015).

Bene Eric ma, considerato che “Live At The Regal” è un album del 1965 registrato il 21 novembre 1964, che cosa resta, per te, del periodo con gli Yardbirds, nel quale hai militato dal 1963 fino al 25 marzo del 1964?

Per noi posteri, cui secondo il poeta spetta l’ardua sentenza, molto, soprattutto per le implicazioni con la storia del blues rock al di qua dell’Atlantico. Non a caso Eric, unico musicista ad essere stato inserito tre volte nella Rock and Roll Hall of Fame, detieni tale record sia come solista ma anche come membro dei Cream e degli Yardbirds!

Per meglio comprendere tale abiura può essere utile ascoltare la raccolta “Yardbirds: Eric (Slowhand) Clapton” che contiene parte delle registrazioni, in studio e live, fatte dalla band nel periodo in cui Clapton imbracciava la chitarra solista tra gli uccelli da giardino, poi sostituito da Jeff Beck e, infine, da Jimmy Page. Data alle stampe nel 1975 contiene, nella prima facciata le registrazioni in studio, pubblicate quali singoli nel 1964 e 1965, e, nel lato B, parte dei brani dal vivo contenuti in “Five Live”, registrati al Marquee Club di Londra il 20 Marzo del 1964 e pubblicato nel Regno unito circa nove mesi dopo ed essendo, di fatto, il primo album degli Yardbirds.

Ma prima, è doverosa una prefazione storica. Tra la fine dei ‘50 e l’inizio dei ’60 la piena occupazione iniziò ad offrire nuove possibilità a quei ragazzi che erano cresciuti durante o immediatamente dopo la seconda guerra mondiale. Finalmente con i propri soldi in tasca e senza dover chiedere nulla ai genitori, i giovani iniziarono a spendere tutto lo stipendio per fare quello che più gli piaceva, ovvero e, come da allora, sempre: due ruote a motore, droga, sesso e musica per ballare!

Per i tanti che hanno visto il film “Quadrophenia” c’è poco da aggiungere, per gli altri (sic!), succintamente il film, ambientato proprio nel 1964, racconta la storia di un giovane mod incompreso in famiglia, schiavo di un lavoro alienante, da cui si riscatta solamente nei fine settimana di violenza, pillole e musica. La scena madre dell’intero film è la lunga sequenza girata a Brighton, con la gigantesca rissa tra i mods e gli odiati rockers, fatto realmente accaduto durante le Bank Holiday in un fine settimana del maggio 1964 sulle spiagge di Brighton. Provenienti entrambi dalla classe operaia, i mods e i rockers rappresentano due modi diversi di accostarsi ai mutamenti sociali in atto nella Gran Bretagna degli anni Sessanta: i rockers si ergono a paladini di un ideale di uomo forte e conservatore che guarda con sospetto all’immigrazione di colore. I mods, al contrario, amano la vita convulsa delle città e gradiscono l’importo della gioventù di colore, soprattutto per quanto riguarda la musica.

E nella Città (Londra), per i mod, iniziano a fiorire i club dove ascoltare la musica proveniente da oltre oceano: R&B, Soul e Blues, anche se, all’epoca, veniva percepito tutto come blues. Memorabile la frase di Keith Richards che ricorda come i proprietari dei club chiedessero di suonare l’R&B ma, “anche se non sapevamo cosa fosse, per non perdere l’ingaggio accettavamo lo stesso, tanto per noi era tutto blues”!

Locali come Flamingo, Marquee, 100 Club e il Crawdaddy Club, che fu la prima residenza dei Rolling Stones e che diventò il posto dove accaddero gli eventi che esercitarono la più grande influenza sulla scena musicale inglese dai tempi del Cavern di Liverpool. Per capire il luogo basti dire che "Hey Crawdaddy!" era una canzone contenuta in una registrazione dal vivo di Bo Diddley scaturita dalla fusione di "Crawdad Song" e la sua canzone "Hey Bo Diddley". Quando gli Stones raggiunsero la fama per passare al circuito dei tour teatrali, Gromelsky, proprietario del Crawdaddy, sostituì gli Stones con la nuova band: gli Yardbirds.

La scena dei club è il luogo in cui tutto stava realmente accadendo: dove gruppi come gli Animals e i Rolling Stones potevano sentirsi liberi dalle restrizioni imposte loro dall'industria discografica e dare vita a live incendiari. Schiere di mods, eccitati dall’alcool e dalle anfetamine che i loro padri avevano conosciuto durante la grande guerra, sfogavano la loro rabbia dentro tempeste di feedback, distorsioni e tribalismi, i cosiddetti “rave-up”, lunghe esibizioni strumentali di matrice blues ancorati a una struttura che tendeva alla ripetizione con un battito ritmico incessante, a scapito della chiarezza e della precisione del suono, certo, ma con l'ulteriore vantaggio di poter liberare la proverbiale bestia che c'è dentro ognuno di noi.

Al Crawdaddy gli Yardbirds si guadagnarono un consenso di tutto rispetto, mostrando di essere tecnicamente più avanti di Rolling Stones ed Animals e lo stile di Clapton iniziò a diffondersi tra agli appassionati di musica. È qui che Gomelsky, secondo una delle versioni più accreditate sulle origini del soprannome del nostro, decide di chiamarlo Slowhand, dato che nelle pause tra un brano e l'altro partono spesso applausi sincopati e lenti diretti al giovane Clapton, tipo perbene e timido, ma che durante quelle vibranti cavalcate strumentali assumeva le vesti di uno sciamano elettrico, facendo leva su una straordinaria capacità improvvisativa.

Tornando alla raccolta, il lato B presenta 5 brani ipercinetici e testimonia, più o meno fedelmente - data la bassa qualità della registrazione dovuta all’acustica del locale e all’utilizzo di un registratore a due piste - l’atmosfera che si respirava durante le esibizioni suonate dalla prima lineup della band, quella formata da: Eric Clapton ovviamente alla chitarra, Chris Dreja alla chitarra ritmica, Jim McCarty alla batteria, Keith Relf per la voce e Paul Samwell-Smith, basso e voce; produzione affidata a Gomelsky. Si tratta di cover, per lo più di provenienza blues e rhythm'n'blues che possiedono le caratteristiche per tradursi nel linguaggio estremamente dinamico, potente e rock oriented degli Yardbirds, fatta eccezione per il rock’n’roll di “Too Much Monkey Business” di Chuck Berry, che apre l’esibizione contenuta in “Five Live” dopo una breve introduzione dello speaker, e che viene trattato alla stessa maniera. Ne viene fuori una cover spudoratamente aggressiva, proto-punk e in linea con il trattamento riservato all’epoca da tutte le U.K. cover band del genere all’originale di Berry, trasfigurato da un invito allegro alla danza sfrenata in un appello alla zuffa. Ma nessuno tranne Eric Clapton poteva conferire classe all'assalto senza sacrificarne la rabbia e la furia.

Purtroppo la qualità del suono della registrazione è veramente scarsa per apprezzare adeguatamente tutte le sfumature della chitarra solista oscurata dal basso di Samwell-Smith, in questo ed in tutti gli altri brani live. Il tono sottile della Fender Telecaster di Eric, amplificata con i miseri 30 watt del Vox AC30 allora in voga, può essere solo percepito attraverso la pesante cortina di fumo della sezione ritmica e probabilmente sarà considerato appena ascoltabile da tutti coloro che hanno in mente la potenza della sei corde di Clapton presente già a partire dal lavoro immediatamente successivo con John Mayall, merito anche delle nuove strumentazioni utilizzate da Clapton: Gibson Les Paul Sunburst amplificata dal Marshall JTM 45 la cui potenza è di più di 40 Watt (oggi roba da ridere, ma siamo nella prima metà dei ‘60 …) ma soprattutto con componenti che danno ai combo della Marshall una voce molto più aggressiva dei Vox (il mito riferisce che i primi modelli siano andati in possesso di Eric, Jimi Hendrix e Pete Townsend, a proposito di potenza …).

Detto questo, “Too Much Monkey Business”, è praticamente l’unica canzone in cui Eric ottiene un vero e proprio posto da solista anche se in “Five Live” si può apprezzare la chitarra solista anche in “Five Long Years!” e “Louise” di John Lee Hooker, ma chi ha curato la compilation ha preferito, giustamente, puntare sulle esibizioni che riproducono meglio lo spirito della band nel 1964, che era anche il motivo del successo delle loro esibizioni live.

Seguono, infatti, 5 Blues e R&B della metà dei “fifthies” suonate con sprezzante ferocia, ad un ritmo e con un'energia che nessuno a Liverpool o Manchester avrebbe potuto eguagliare e nei quali Keith Relf ottiene un posto da solista con la sua armonica, che in realtà suona solo perché è un frontman che non suona la chitarra. Certo, è bravo con lo strumento, ma non è né Sonny Boy Williamson né Little Walter! Si parte con un brano di Slim Harpo: "I Got Love If You Want It", lato B di “I’m A King Bee” pubblicato nel 1957 e la cui cover dei Kinks sarà pubblicata poco prima (ottobre ’64) con maggior consenso di pubblico semplicemente perché più bella.

Migliore sorte spetta a "Smokestack Lightning" di Howlin' Wolf: la versione originale è irraggiungibile, ma se lui stesso l'ha definita la migliore cover del suo classico un motivo ci sarà.

Infine … “li botti”!!! Due cover di Bo Diddley, l’artista che meglio si presta al trattamento “rave up”: “I’m A Man” e “Here ‘Tis” che dimostrano - e su questo lo stesso Eric è d'accordo - quanto gli Yardbirds rendano meglio dal vivo, dove riescono a trovare un equilibrio tra brani R&B tradizionali, una rispettabilità blues ma, soprattutto, una notevole energia postbellica.

La presenza di Clapton su questi brani non è, quindi, la ragione per cui meritano ancora la vostra attenzione dopo circa sessant’anni dalla pubblicazione. La cosa più importante è che si tratta dell'unico documento della sua epoca che permette di sentire come suonava un vero e proprio “rave up” da club al tempo: il più lontano possibile dall'idea di una band guidata da Eric Clapton!

Poco da aggiungere per il lato A, che contiene i brani registrati in studio, assodato che la versione live di “I’m A man” è più rappresentativa, fa piacere la scelta di “Goodmorning Little Schoolgirl”, piuttosto che la versione live, per il bell’assolo di chitarra non presente dal vivo.

“For Your Love” e “Got To Hurry”, lato A e B del 45 giri pubblicato il 5 marzo del ’65 sono, la prima il motivo ufficiale dell’addio di Clapton agli Yardbirds per la svolta pop e commerciale che Gomelsky aveva imposto alla band (insieme al nuovo taglio di capelli di Relf troppo “Merseybeat” per “Slowhand”: la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso!). La seconda, composta da Gomelsky alias “Rasputin” si inserisce nel filone dei brani strumentali in voga all’epoca e dominato da “Booker T. & the MG’s”; memorabile la danza di Sting in Quadrophenia di “Green Onions”!

Completano la raccolta “I Wish You Would” e “A Certain Girl”, anche queste lato A e B di un 45 giri del maggio 1964 che rammentano cosa acquistava un giovane mod che andava nei club. Tanto che il sommo Bowie inserirà “I Wish You Would” tra le cover dell’album “Pinups”, pubblicato nel 1973 per rendere omaggio ai suoi gruppi preferiti di quanto era un mod: Pretty Things, Pink Floyd, Them, Who e Yardbirds.

Alla fine del 1964 gli Yardbirds hanno già calcato il palco quasi duecento volte con un seguito sempre più nutrito ma tutto questo non ha impedito a Clapton di abbandonare la band ed innescare una serie di eventi che porteranno alla formazione dei Cream e dei Led Zeppelin, quindi: grazie Eric, grazie anche per questo, oltre che per quello che verrà subito dopo, quando il magma ribollente, nato dal Blues partito dal delta del Mississippi, elettrificato a Chicago e giunto nella gelida Albione, romperà la crosta e fluirà ribollente ad incendiare il mondo: W IL ROCK!

Lato 1 – Studio:

  • For Your Love – Graham Gouldman
  • I’m A Man - Bo Diddley
  • I Wish You Would – Billy Boy Arnold
  • Goodmorning Little Schoolgirl – H. G. Demarais
  • A Certain Girl – Naomi Neville
  • Got To Hurry – Oscar Rasputin

Lato 2 – Live

  • Introduction
  • Too Much Monkey Business – Chuck Berry
  • Got Love If You Want - Slim Harpo
  • Smokestack Lightning – Howlin’ Wolf
  • I’m A Man - Bo Diddley
  • Here ‘Tis - Bo Diddley
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