No, nella maniera più categorica NO: non è questo il "Self Portrait" di Eric, rifacendomi al celebre "What Is This Shit...?" di Greil Marcus sulla - quantomeno controversa - opera dylaniana datata 1970. Nel senso che non è: né l'album peggiore di Slowhand (titolo che si contendono "Behind The Sun" e "August", inevitabilmente) né un disco debole, disprezzabile e trascurabile dall'inizio alla fine, come invece è stato spesso descritto. Con "Another Ticket" non sono stati molto teneri, questo è risaputo; chi non aveva apprezzato "Backless" e, più in generale, il Clapton più intimista e raffinato della seconda metà dei '70 non ci mise molto a cestinare questo disco, ultimo per la RSO esclusa l'antologia "Timepieces". "Repertorio non all'altezza e troppo leggero", "presenza modesta della chitarra solista", "rivisitazione non impeccabile e in tono minore dei classici proposti"; tutte cose che ho letto, tutte cose sulle quali posso anche essere d'accordo - ma solo in parte. Perché se il disco dell''81 non è e non può essere fra le cose migliori del chitarrista, ma non è neanche poi così male, se lo andiamo a riascoltare facendo le giuste premesse. 

Mi spiego meglio. Già da qualche anno Eric non lavorava più con la sua formazione "storica": non c'era più Carl Radle, non c'era più Jamie Oldaker, non c'era più Dick Sims. Certo, non parliamo di strumentisti inarrivabili, ma comunque di pedine fondamentali per la definizione di quel sound intrigante, discreto, così ispirato a certo "Tulsa Sound" che aveva caratterizzato il Clapton degli anni precedenti. Al loro posto vengono reclutati musicisti di studio come Henry Spinetti e Dave Markee, di fatto la sezione ritmica dell'ex-Stealers Wheel Joe Egan, e quando si cambia dopo tanto tempo ci vuole un po', per tornare a pieno regime. In più, però, ci sono Albert Lee e Chris Stainton, e non sono certo presenze da poco; il concerto giapponese immortalato in "Just One Night" aveva evidenziato pregi e difetti della nuova band. Basso e batteria un poco freddini e "impersonali", se vogliamo, e relegati in secondo piano, ma con la novità delle due soliste di Clapton e Albert che, sovente, aveva rubato la scena al padrone di casa (memorabile la versione della knopfleriana"Setting Me Up" cantata da lui).

In sostanza, sono gli stessi pregi e difetti quelli che si ritrovano in "Another Ticket; un disco al quale manca qualcosa per poter fare il salto di qualità, e non sempre convincente nella scelta dei pezzi. C'è, per di più, il classico "pesce fuor d'acqua" che  risponde al nome di Gary Brooker (esatto, quello dei Procol Harum) che porta, sì, un pezzo scritto a 4 mani con Eric ("Catch Me If You Can") ma che per il resto si nota poco - e quando si nota, non c'è da restare estasiati. Mi riferisco soprattutto alla "title-track" pezzo totalmente fuori-contesto e sdolcinato oltre misura, appesantito sul finale da sintetizzatori e fastidiose sonorità tastieristiche che, con certo Blues, c'entrano come i broccoli a merenda. Un pezzo che davvero non ha ragion d'essere, ruffiano e sgradevole anche perché inserito in un disco che non ne aveva assolutamente bisogno. Alla resa dei conti, però, è l'unica nota davvero stonata, l'unico episodio "brutto" di un'opera che sa offrire di meglio, di molto meglio. Senza raggiungere chissà quali vette, siamo d'accordo, ma neanche sfigurando o incorrendo in nette cadute di gusto. L'inizio (languido) di "Something Special" è irresistibile, quando il leader canta con quella voce così sensuale e ammiccante che, della sua produzione del periodo, è uno dei marchi di fabbrica; magari "Black Rose" (versione del pezzo di Troy Seals, stella di Nashville e dintorni) non lo è altrettanto, con quelle movenze Country-Folk che riportano a certe atmosfere di "No Reason To Cry", e quella inevitabile sensazione di "già sentito"; ma è comunque un pezzo solido, che sa il fatto suo e presenta un bel lavoro di acustica. "I Can't Stand It" è Pop-Blues di sublime fattura, "Hold Me Lord" una piacevolissima parentesi "campagnola" dagli accenti Gospel, intensa e sentita nell'interpretazione (altro che riempitivo). Il meglio arriva, manco a dirlo, quando si tirano in ballo Sleepy John Estes e Muddy Waters: il primo in una graffiante rilettura di "Floating Bridge", molto-Dire Straits nell'approccio (il disco è registrato ai Compass Point di Nassau nelle Bahamas, dove Knopfler e soci avevano inciso "Communiqué); il secondo in uno swingante rifacimento-Shuffle Blues di "Blow Wind Blow", con Dave Markee al contrabbasso. E che dire dei fulgori elettrici di "Rita Mae", chiusura in grande stile con tanto di assoli e ritmica vibrante...?

Ben felice di allargarmi, rivalutando questo BEL disco. 3,5 arrotondato a 4, con molto piacere. Perché la CLASSE, quando si parla di quest'uomo qui, non è mai un elemento da sottovalutare.    

Carico i commenti...  con calma