Eric Clapton ha sulle spalle più di quarant’anni di carriera, nel corso della quale si è conquistato una grande popolarità e un’ottima reputazione quale chitarrista. La sua discografia è immensa: si va dalla militanza negli Yardbirds a quella nei Cream di Jack Bruce e Ginger Baker, con i quali ha posto le basi dell’hard-rock, a quella nei Blind Faith di Steve Winwood, un fortunato esperimento di blues bianco, fino alla lunghissima carriera solista. Proprio la carriera solista è il periodo più discusso del chitarrista inglese, che non è più riuscito a graffiare come in passato, oscillando continuamente fra alti (pochi) e bassi (molti): spesso viene infatti ricordato per il celeberrimo album dal vivo "Unplugged", cosa che se da un lato rende giusto onore alle sue doti tecniche dall’altro evidenzia la poca incisività dei suoi lavori in studio.
"Slowhand", datato 1977, si allinea perfettamente alle considerazioni appena fatte: un album che si fa apprezzare in qualche passaggio ma che non convince del tutto. Apre la cover di "Cocaine” di J.J. Cale, un pezzo destinato a diventare un classico del repertorio dal vivo di Mr.Slowhand, rivista in un arrangiamento decisamente più rock. Seconda traccia e secondo classico: “Wonderful Tonight", una romantica ballata che Clapton canta con voce commossa. La briosa "Lay Down Sally", anch’essa destinata a venire riproposta all’infinito nelle esibizioni dal vivo, è il terzo classico dell’album. La successiva "Next Time You See Her" non si fa apprezzare particolarmente se non per il ritornello coinvolgente mentre "We’re All The Way" passa velocemente senza lasciare traccia. "The Core", impreziosita dalla seconda voce di Yvonne Elliman, si sviluppa su di un coinvolgente riff, ma viene prolungata fino a quasi nove minuti, probabilmente troppi anche per una mano abile come quella di Clapton, che si destreggia al meglio nella lunga coda del brano. La seconda cover del disco, "May You Never" di John Martyn, anch’essa riproposta in un arrangiamento rock, non può certo competere con l’originale in chiave folk. Sia "Mean Old Frisco" che la strumentale "Peaches And Diesel" lasciano l’amaro in bocca: irritante la prima, piatta la seconda.
In conclusione, il disco merita un’abbondante sufficienza, soprattutto per le prime tre tracce e per "The Core", ma è penalizzato da qualche brano sottotono.
Interessante, ma non indispensabile.
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