Facile, almeno in apparenza, estrapolare il succo della televisione commerciale italiana coi suoi innumerevoli stereotipi: chiappe e deretani focosi, mise hot, servizi telegiornalistici su ammiccanti celebrità che surclassano gli analoghi di cronaca nera, gossip e pettegolezzo scandalistico a perdita d'occhio... Il variopinto mondo della TV privata sarebbe stato ideato, forgiato e sviluppato da un "Presidente" panteista seriamente intenzionato a trasporre sullo schermo il proprio stile di vita, un pacchianesimo di gozzoviglie, stravaganze e pseudo libertinismo (etichettato come conservatore) dialetticamente opposto all'allora bigottismo moraleggiante di mamma RAI (che in seguito avrebbe seguito molto da vicino la maliziosa filosofia catodica dell'acerrima antagonista).
"Videocracy", la summa (quasi) perfetta di tali ideali e valori, esportati e assimilati senza alcuna difficoltà dall'italiano medio, scialba ampolla semivuota priva di grandi mete che vadano oltre l'abbattimento, anche estemporaneo, della parete fra spettatore e intrattenitore. L'obiettivo è tanto astrattamente semplice quanto complesso nella sua realizzazione: il successo, la notorietà, il porsi davanti ad una telecamera e "diventare qualcuno", non importa come, basta farlo. Il fine giustifica i mezzi: l'erronea, classica machiavellica dottrina del (quasi) self made man. Solo la televisione può fornire la tanto agognata "pubblicità" personale ad orde di sedicenti "bucatori" dello schermo che si contendono l'iniziazione nel business mediatico. Osservate le interminabili colonne di individui in attesa del provino che potrebbe cambiare la loro l'esistenza, l'attimo in cui verrà resettato dalla "fedina" lo status di perfetto sconosciuto.
Il documentario, diretto da Erik Gandini, illustra, con riprese volutamente segmentate - frammentate, le sfaccettature più composite ed eloquenti della televisione commerciale, a partire dai suoi protagonisti e avventori. Si parte con Ricky, operaio metalmeccanico, cintura nera di karate e imitatore amatoriale di Ricky Martin, fermamente intenzionato a passare dal mediocre retroscena dell'antinotorietà alla trionfale ribalta dell'etere catodico. Con un pesante accento bergamasco il giovane si lamenta delle difficoltà incontrate nell'attuazione dei suoi progetti e di come la TV sia persino sessista all'inverso, in quanto assolderebbe troppe procaci donnine e scarse controparti maschili.
Il reportage vira dall'ingenua bonarietà paesana di Ricky agli studi televisivi dominati dalle onnipervasive macchinazioni del Presidente, focalizzando l'attenzione sul connubio formosità - successo assicurato, una tematica presto giustificata dall'impressionante numero di aspiranti veline & co. agghindate a festa (si fa per dire) in procinto di presentare alla giuria lo "stacchetto" decisorio. Dal campo di azione si emigra al quartier generale, il locus amenus dei Direttori e del Presidente stesso: la Costa Smeralda, un "sito di pellegrinaggio" nel quale i visitatori sperano di incontrare i loro idoli, scattare fotografie e avvicinarsi timidamente, il massimo che possono ottenere da una visita in loco.
E' qui che lo spirito "seminale", l'etica di base dell'emittente (e il suo Capo) stabiliscono l'eterna fortezza e traggono preziosa linfa pre - produzione: il super agente Lele Mora, nostalgico mussoliniano amante dei canti fascisti ridotti a suonerie polifoniche, immortalato nella sua magione total - white assieme a nuovi e antichi adepti (tronisti, modelle...) stesi a bordo piscina; l'allampanato Flavio Briatore, patron del Billionaire coadiuvato da mediterranee bellezze; la fotografa (e vicina di villa del Presidente) Marella che "tira a campare" scattando immagini presso le esclusive feste private della Costa e scegliendole con mirabile accuratezza prima della pubblicazione online. Finalmente giungono El Presidente e seguaci, casalinghe tutte in allegra compagnia a performare l'inno ufficiale, per strada, in ospedale, al mercato. La luna di miele della coppia politica - media, maledettamente trendy in Italia.
Poteva mancare il (secondo) magnum opus della sfacciataggine commercial - capitalistica nostrana? Certo che no. Ecco dunque Mr. Fabrizio Corona, il Robin Hood post medievale che toglie ai ricchi per dare a se stesso (parole sue), sposo eterno del soldo facile, cinico e spietato padrino del gossip italico pronto a sguinzagliare nottetempo fedeli scugnizzi alla spasmodica ricerca di un pettegolezzo o di qualche mano a mano famoso in giro per la movida metropolitana. Neanche le porte del carcere, a seguito di un'accusa di estorsione, inficiano l'effetto Corona, che anzi si trasforma nell'imprenditore della sua causa, macchinando dietro le sbarre una maestosa campagna commerciale - mediatica fatta di libri, dischi, abbigliamento firmato, passerelle, serate in discoteca da 25.000 Euro solo per comparire a frotte di adolescenti e immortalare, gelido e impassibile, foto ricordo sull'aureo trono del successo. I "cazzi amari" invocati dall'appena scarcerato paparazzo nei confronti dei suoi nemici hanno funzionato alla grande, potere del poco cristiano e molto umano Dio Denaro. Ricky, infine, approda sullo schermo come "il tarantolato". Ce l'ha fatta. Un altro scacco alla massa di ignoti.
La Televisione. Un immenso universo, una voragine risucchiante che tuttavia pare in fase di lento sgretolamento: social networks, partecipazione attiva, coinvolgimento sociale - politico dal basso e "auto - democrazia" bussano feroci alle porte del Presidente, reo di troppi bunga bunga concreti e astratti. Una nuovissima e inedita italian lesson?
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