E' d'obbligo fare una precisazione, questo "Cento Chiodi" ha già ottenuto due recensioni all'interno di DeBaser e una moltitudine sproloquiante di critiche, esegesi, spiegazioni, in molti altri siti, contenitori e giornali: era proprio necessario scriverne un'altra volta? Non saprei, decidete voi. Quel che mi sta a cuore è chiarire una volta di più, oltre ai meriti artistici del film, quelli di contenuto, il suo messaggio. Il messaggio di un regista cristiano, alla sua gente e alla struttura, con i suoi riti e le sue rigidità, in cui il crisitanesimo s'è incarnato. Mi scuso quindi con Poetarainer e Sabatino, che peraltro hanno illustrato due soggettive molto diverse della stessa opera, sperando di aggiungere qualcosa.
"Entrati nell'angusta saletta contiamo 10 o 11 persone, ma del resto, lo capiremo presto, questo film di Olmi - a parte il nome di Raz Degan - non sembra aver nulla da offrire al pubblico di oggi, sembra addirittura un film anacronistico e antistorico. "Cento chiodi" è uno shock della bellezza, sublime nella sua rappresentazione etica ed estetica. E' interpretabile anche come un segno in risposta della celebre profezia Dostoevskjiana - la bellezza ci salverà! - che pare proprio avverarsi in opere d'arte come questa che sanno unire intelletto e sentimento. Non si può che rimanere sconvolti davanti al nitore e alla purezza di questo lungometraggio, si potrà obiettare la forma, peraltro governata da una fotografia magistralmente diretta, ma non si potrà discuterne i contenuti. Olmi, al suo ultimo lavoro di finzione, come da lui stesso annunziato, sembra voler sintetizzare tutto il messaggio della sua vita professionale, spesa dalla parte dei più deboli, dei diversi, degli emarginati, sembra voler chiarire i suoi principi al mondo e lo fa' con un urlo di incontrastabile passione.
La parabola è semplice e adotta lo stesso tono lineare eppure profondamente turbante dei Vangeli. Un filosofo delle religioni - un intenso Raz Degan - inchioda 100 antichi libri contenuti in una preziosa biblioteca di facoltà. Questa storia "scandalosa" si apre con una scena che toglie il fiato, una scena che rimarrà impressa nella memoria: disturbante, critica. "Ogni spiritualità" recita a inizio pellicola Raz Degan, citando Jaspers, "si converte in profitto e la felicità di vivere è falsa come l'arte che la esprime". Il film non ce lo racconta, ma noi sappiamo che il tempo in cui l'anonimo professore, protagonista del film, vive la sua solitaria crisi intellettuale, è il presente di una profonda crisi sociale segnata dalla diffusa sfiducia dell'uomo verso le istituzioni civili e religiose, con una chiesa che dà l'impressione di essere arroccata sulla difensiva. E' questo il presente da cui il protagonista fugge, rinnegando il sistema di regole e conoscenze su cui è fondato. Se Montalbàn faceva bruciare al suo Carvalho la propria biblioteca («Un giorno mi ringrazierai per aver letto un libro in meno», dirà alla sua giovane amica), Olmi i libri preferisce inchiodarli, così come loro, i libri, simbolo dell'ordine costituito, duemila anni fa hanno inchiodato la sovversione di Gesù. "I libri non hanno salvato il mondo, come non lo hanno salvato le religioni [..] c'è più verità in una carezza che nelle pagine di questi libri" dice Degan ad una studentessa indiana poco prima di andarsene.
La fuga del professore lo porta a trovare il suo locus amoenus lungo le rive del Po. "Come in tutte le fughe bucoliche, ciò che importa non è il realismo di questa dimensione, ma il candore e la purezza della poesia che l'autore riesce a racchiudervi." suggerisce Paolo Caroli dalle righe dell'Adige. Il fiume diventa così il fiume del Siddharta di Hermann Hesse, quello di Jonh Ford nel film "In nome di Dio", soggetto si poetico, ma capace, nel suo trascendimento, di insegnare qualcosa, la verità della Natura, che è Verità assoluta. Olmi utilizza un linguaggio suggestivo e di notevole forza espressiva, che si realizza attraverso le riprese di paesaggi, di persone, di lievi movenze, nella cura dei suoni, come raramente avviene in opere dominate da un messaggio contenutistico. Qui il messaggio c'è, ed è fin troppo chiaro, ma si esprime nei suoi momenti migliori in modo riflesso, indiretto, affidato soprattutto all'ambiente e alle sue voci. Quelle facce contadine, quelle frasi semplici, quei balli sulle aie, quell' "ultima cena" che ha una potenza figurativa tale, da non necessitare nemmeno della parola, dei dialoghi (che, infatti, appaiono talora intarsiature superflue nell'economia dell'opera).
Lentamente, impegnato nella ricostruzione di un vecchio rudere in una anonima località lungo il fiume, conosce la gente del luogo e si inserisce nella vita di un circolo per anziani minacciato di sfratto, luogo che continua, nonostante le continue diffide, ad essere luogo d'incontro e di umanità infinita. Degan troverà, qui, in questo gruppo di persone semplici, i suoi moderni "apostoli", li aiuterà ad affrontare le situazioni più difficili, i soprusi delle istituzioni, le ruspe inviate dalle istituzioni, finirà per essere riconosciuto e imprigionato, condannato da quelle stesse istituzioni che stava combattendo, come un malfattore, come un ingiusto. La storia, insomma, come tutti la conosciamo.
La trama, lo ripeto, è semplice, non priva di difetti, ma è la ricchezza dei significati, accompagnata dallo splendore dei significanti, il cuore pulsante di questo film. Un film che in un momento di forti attriti per la gerarchia ecclesiastica, riporta la vita a quei valori semplici che dovrebbero caratterizzarla. Riporta il cristianesimo - "che non è una religione, anzi è liberazione dai legami, da ogni legame" citando Don Giorgio De Capitani - alla sua dimensione più sincera. Il Cristo di Olmi, è il Cristo radicale, quello degli ultimi, dei reietti, il Cristo dei primi cristiani, un Cristo che si abbatte contro le istituzioni quando queste soffocano l'uomo in una palude di vessazioni e cinismo, che rifiuta e combatte il Potere con il coraggio di un gesto rivoluzionario. Il Cristo radicale è quello non imbrigliato nella chiesa-struttura, quello oltre le gerarchie, quello che arde nel cuore dei profeti, secondo Olmi, l'unica fiamma che può bruciare questa società decaduta e dar luce a un nuovo futuro. E' un Cristo che ritrova un alito di vita, la propria dimensione umana, un Cristo, sembra voler dire Olmi ai gerarchi, in grado di radunare ancora l'attenzione e i cuori attorno a sé. Un Cristo fuori dal rito, che è morte, dentro la carne, che è vita, che riafferma l'uomo come anima fondamentale del disegno di Dio, come entità dalle quasi infinite possibilità
La critica si è divisa davanti a questo film, come capita sempre davanti alle idee forti. Di par nostro, si è dinanzi ad un'opera splendida che prima di finire in pasto a sterili critiche dovrebbe essere compresa al suo fondo, guardando questo nostro difficile momento storico in cui i valori vacillano, semplicemente ringraziata: ringraziato un regista di spessore e la piccola grande profezia che ribadisce. Non importa se il dito sia magro, tozzo, piccolo o inespressivo, mai come in questo caso, è necessario guardare alla luna, andare oltre. Quanti falsi cristiani si saranno indignati davanti all'ultimo dialogo in scena, quando Degan dice al vecchio cardinale, suo primo maestro: "Sarà Dio a dover rendere conto di tutta la sofferenza dell'uomo .." Chissà quanti uomini di salotto saranno rimasti indignati nel vedere crocifissi e vilipesi tutti quei libri che "non valgono un caffè con un amico". Eppure questa loro indignazione è lo scudo di difesa di chi non vuol vedere la realtà, di chi non è disposto a immergersi completamente nel messaggio di questa parabola odierna.
Il libro non è offeso e svilito nella sua natura - tanto è vero che durante tutto il film sono molteplici le citazioni dirette dai Vangeli - è offeso come strumento al servizio del potere, come pagina morta, come simulacro buono per ogni padrone, per aver trasformato il Cristo incarnato nel cristo-idolo degli altari, dei vessilli, delle ideologie, in un Cristo lontano dalla gente e dalla sua prima profezia radicale.
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