Quello che ho dimenticato di dirvi, nelle recensioni precedenti, è che questi film americani, girati tra il 1930 ed il 1934, costituiscono il cinema del pre-code hollywoodiano. La Hollywwod proibita, il cinema senza censure.

Nel dettaglio (dal sito del Palazzo delle Esposizioni, ospitante la rassegna)

Per tutti gli appassionati di cinema quella del "Pre-Code" è stata una stagione unica e irripetibile nella storia di Hollywood, capace ancora oggi di affascinare per il suo profondo anticonformismo. Si tratta a ben vedere solo di una manciata di anni, dal 1930 al 1934, tra il trionfo del sonoro e l’effettiva entrata in vigore del famigerato Codice Hays, le norme di autocensura che imponevano quello che non si poteva mostrare e raccontare nei film. Eppure si tratta di anni decisivi, soprattutto per le tensioni sociali che gli Stati Uniti vivevano dopo il crollo di Wall Street del '29: quello che fiorisce in quella breve finestra temporale è un cinema dal piglio aggressivo e spudorato, in cui molti temi sensibili sono affrontati di petto e con una libertà che a Hollywood tornerà solo negli anni '60. Dal sesso alla violenza, dalla questione razziale alle critiche al sistema carcerario, dal mondo della criminalità all’emancipazione delle donne, non c’è argomento controverso che non sia stato esplorato dal cinema americano di quegli anni, con toni e forme in netto anticipo sui tempi e con poche preoccupazioni per i cosiddetti "standard morali" degli spettatori. A rendere l’impresa epocale è poi il contributo di registi di genio come Lubitsch, Hawks, Sternberg, Curtiz, Fleming o Capra, solo per citarne alcuni, coadiuvati da un gruppo di dive fuori dal comune che incarnavano un nuovo modello femminile, insieme ironico, volitivo e disinibito: da Marlene a Mae West, da Barbara Stanwyck a Jean Harlow. Il risultato è un cinema dalla creatività a briglia sciolta che non smette di sorprenderci, nonché di ricordarci ancora una volta quanto la libertà dalla censura sia il formidabile propellente di ogni arte.

Fatta questa doverosa (e tardiva) premessa andiamo a dire due parole su Trouble in Paradise di Ernst Lubitsch.

Iniziamo col dire che Lubitsch è uno dei più grandi registi di tutti i tempi. È il pioniere della commedia moderna americana (che se diciamo addirittura che se l’è inventata lui, non si scandalizza nessuno).

Il ritmo, i dialoghi, le trovate, un’impalcatura tanto magnifica quanto solida, intarsiata, scolpita e levigata da quello che sarà definito “il tocco alla Lubitsch” che è una roba non semplice da definire (vedere per capire) un mix di arguzia, sorpresa, una parola, uno sguardo, un colpo di scena, all’interno di una sontuosa sceneggiatura.

Insomma, sebbene la definizione risulti in un certo qual modo “fredda” potremmo parlare di un vero e proprio manuale dell’uso. Se non avete compreso appieno (perché la spiegazione orale è affatto esaustiva) cosa intendo, vi dico solo, che tale tocco lo avrete visto centinaia di volte (però fatto peggio) in centinaia di commedie americane (e non solo, a seguire). Vi faccio solo un esempio: in un suo vecchio film del ’19 “Der Puppet” (La bambola di carne) c’è una scena in cui la bambola mangia di nascosto e appena l’altro si volta lei si blocca (vi ricorda qualcuno? Ma sì, Fantozzi che mangia le polpette “tu manciaaa!”). Lubitsch è sorpresa, è quella battuta, situazione o altro che ti colpisce, ti accende qualcosa dentro, ti fa ridere e sorridere. È come se ti chiamasse la risata e te la estraesse come un dente ma senza farti male. Questo “tocco” (l’ho già detto) stra-copiato (male) è ormai un “must” della commedia in generale, anzi sarà abusato (pensate alle serie comedy americane degli ultimi 40 anni, alle risate – irritanti - fuori campo per battute che, nel migliore dei casi, sono loffie).

A questo punto sappiate che lo stesso Lubitsch ebbe a dire, circa Trouble in Paradise, quanto segue: “sul piano dello stile, non ho mai più fatto nulla che superasse o nemmeno eguagliasse Trouble in Paradise”.

Lily e Gaston, una coppia di simpatici e abili ladri di gioielli, si intrufola nella casa di Marianne, una ricca signora della buona società parigina. L'uomo si spaccia per segretario mentre la donna si fa passare per la sua dattilografa. Innamorati l'uno dell'altra i due hanno deciso di fare coppia fissa anche sul lavoro. Accade un imprevisto però…

Il film si apre a Venezia, per cui ci sono dei momenti in cui gli interpreti parlano in lingua originale (l’italiano). Ebbene, perfino i dialoghi in italiano sono ad un livello di scrittura altissimo (giusto per far capire che razza di lavoro c’è dietro).

E se Lubitsch è il leader di questa squadra, non è da meno la sceneggiatura esemplare di Samson Raphaelson, o la colonna sonora di Frank Harling che scandisce alla perfezione ogni scena. Che dire degli attori? Il ladro gentiluomo Gaston Monescu in testa grazie alla superlativa interpretazione di Herbert Marshall. Appena sotto Lily (Miriam Hopkins) che però fa più ridere. Infine la contessa miliardaria (che però è più bella di Lily).

Per fare un parallelo con la musica, argomento base del de-base, Lubitsch non solo ha inventato un genere, ma dopo 100 anni nessuno lo ha superato, fatta eccezione per il suo allievo Billy Wilder che perlomeno a buon diritto può sedersi alla sua stessa tavola, ma non è manco “invecchiato male”. Non è invecchiato di un solo giorno ed è anzi ancora oggi molto più emancipato e moderno di tante baggianate puritane e bigotte a venire.

Trouble in Paradise è un capolavoro raffinatissimo e sofisticato, brillante, indiavolato, sopra le nuvole non sopra le righe, perchè le righe le ha tracciate lui.

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