Quando per lavoro o per altri motivi interagisco con una persona di una certa età tendo a cambiare atteggiamento: un pulsante si accende e parlata, movimenti e lessico si smussano per assumere una forma decisamente più morbida ed accomodante rispetto al consueto. Non che li voglia trattare come dei bambini, sarebbe un insulto, ma semplicemente in modo automatico mi approccio a loro con maggiore garbo e rispetto. Non credo sia solo educazione ma a differenza di un adolescente che, inebetito dagli ormoni, non si alza dal sedile di autobus e non lo guarda nemmeno manco fosse trasparente o fosse già sotto un paio di metri di terra; a differenza di questo ciuffo di gel e brufoli l'istinto e la maggiore maturità mi spinge a comportarmi in modo completamente differente. Senza nessuna logica, forse, mi aspetto un tornaconto quando sarò io quello che camminerà con fatica con un appoggio ipertecnologico, leggero e resistente, che avrà mandato in pensione l'attuale bastone.
Dopo aver fatto passare un congruo numero di giorni dalla visione del capolavoro di Lubitsch ritengo pertanto che l'azione più difficile sia quella di combattere contro la naturale tentazione di cedere ai superlativi assoluti gratuiti ed ammorbidire il giudizio fino ad un livello tappetino, solo per il fatto che è un lavoro cinematografico che ha 72 anni.

“To be or not to be”, “Vogliamo vivere” la traduzione italiana, è una commedia di valore storico, paragonabile senza bestemmie a “Il Grande Dittatore” di Chaplin e che merita enorme ammirazione per quanto sia stata rivoluzionaria. La fine del 1941, novembre e dicembre il periodo in cui venne girata la pellicola, è stato il momento cruciale per determinare l'esito della seconda guerra mondiale; se l'Armata Rossa non avesse retto l'urto, la Wehrmacht avrebbe potuto sfondare ad Est (Russia) impossessandosi di fatto dell'intera Europa. Fu inoltre l'attacco a Pearl Harbor (dicembre '41) a costringere gli Stati Uniti a rompere gli equilibri entrando in un conflitto al quale non avrebbero voluto prendere parte. Girare una commedia del genere, praticamente sull'orlo del baratro, lo trovo ancora più complesso rispetto al '39-'40.

Lubitsch con “Vogliamo vivere” è riuscito a scrivere una sceneggiatura particolarmente ispirata per il suo incedere genuinamente spassoso nell'evidenziare oltremodo il ridicolo, delicata nel saper affrontare il dramma di quel periodo grazie anche ad una ottima colonna sonora e contestualmente decisa nello schiaffeggiare lo spettatore statunitense. Mi sembra palese, infatti, tra le risate un forte messaggio interventista che, prima di Pearl Harbor, non era molto popolare negli USA.

I nazisti più che esseri umani vengono dipinti come delle mere marionette; incapaci di criticare e pronti ad assecondare anche gli ordini più assurdi (cfr. scena finale del film) pur di poter salire sul carro del vincitore del momento. Il regista trova il modo per utilizzare a più riprese lo splendido monologo del mercante ebreo Shylock (cfr. “Il mercante di Venezia”); in questo modo un triste ed amareggiato attore di contorno troverà il suo momento di gloria agognato da tempo. Quasi un premio per non aver perso le speranze ed aver avuto il coraggio di continuare a vivere, senza pensare al proprio tornaconto personale, coltivando le proprie passioni anche in un momento drammatico. 

Era da tempo che non ridevo così di gusto al cinema senza nemmeno una parolaccia. Mi ha intristito molto il dover constatare che con i miei trent'anni ero il più giovane tra i presenti in sala: i miei amici infatti non ne hanno proprio voluto sapere e al duo Lombard/Benny hanno preferito la famiglia Smith. Trovo sia un vero peccato perché sono certo che molte persone, anche più giovani di me, si sarebbero divertite tantissimo con una storia degli equivoci in crescendo solo apparentemente banale, capace di mantenere la sua forza d'impatto per un'ora e mezza fino allo scoppiettante finale. Un cast molto teatrale, con i picchi delle interpretazioni di Carole Lombard e Jack Benny, riesce ad esaltare dialoghi ispirati, situazioni tragicomiche capaci di intrecciare in una trama degli equivoci le assurdità del regime totalitario con i comuni problemi del vivere quotidiano (adulterio/egocentrismo/invidia).

Aggiungo che è un'ottima occasione per convincersi del fatto che la lingua originale, unita ai sottotitoli, è il modo migliore per gustarsi un cinema. Se seguirete in fretta il mio consiglio potrete godere di un'opera magistrale e divertente e rimpinguare i modestissimi incassi (60.000,00 € in Italia) che l'uscita al cinema della versione restaurata del capolavoro di Lubitsch ha finora riscosso. 

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