Premettiamo subito che di capolavori non ne avremo più.
E non parlo degli Esben and the Witch, parlo in generale. Avete presente la scintilla del talento? Quella sì, quella scintilla è ancora possibile, si intravede nell'involucro acerbo delle band emergenti, ma poi il passo successivo è sempre quello dell'album di maniera che perfeziona la formula ma ammaestra il talento, mentre l'ispirazione è per metà andata persa per strada. Fra l'album ispirato ma acerbo, dunque, e quello maturo ma da mestieranti, si sta estinguendo il fondamentale anello mancante: il capolavoro (o la serie di capolavori) che ci stava nel mezzo.
Se questo deve essere il nostro destino, allora ben venga un album suicida come “A New Nature”, finalmente un segno di vitalità da parte di queste giovani rock band che proprio non ce la fanno a bissare i fasti dei loro antenati (colpa, a dirla tutta, anche di un mercato discografico dal volto completamente nuovo, un mercato che si muove con logiche, soprattutto a livello di comunicazione e diffusione del prodotto, totalmente diverse).
Facciamo un passo indietro. Gli Esben and the Witch con “Wash the Sins Not Only the Face” dello scorso anno s'imponevano all'attenzione di stampa specializzata e pubblico (d'essai), gettando contestualmente le basi per interessanti sviluppi futuri: l'album mostrava un equilibrio, una consapevolezza ed un'abilità nell'amalgamare generi ed influenze fra loro distanti che erano veramente fuori dal comune per una band che si era formata appena pochi anni prima (nel 2008, per esattezza) e metteva a punto la sua seconda release; fra darkwave e rock sofisticato, atmosfere da sogno e landscape interiori, “Wash the Sins Not Only the Face” era certamente migliorabile, ma il grosso, come si suol dire, era sostanzialmente fatto: sarebbe bastato modellare/perfezionare quella formula, con una produzione maggiormente focalizzata, mediante l'impiego di arrangiamenti ancora più raffinati, facendo leva su una personalità meglio definita e su una accresciuta perizia tecnica. Facile, no?
Ed invece niente di tutto questo!, dimenticate quindi tutto lo scenario appena descritto perché il nuovo “A New Nature”, che fra l'altro sancisce il passaggio dalla vecchia etichetta Matador alla nuova Nostromo (di proprietà della band stessa), è tutta un'altra storia!
Via le tastiere, via i beat elettronici, via gli arrangiamenti patinati, via insomma praticamente tutto ciò che era stato l'apparato identitario del terzetto di Brighton, via tutto questo e dentro Steve Albini! Sì, avete capito bene, Steve “dammi-qualsiasi-cosa-che-te-la-trasformo-in-rumore” Albini, che per altro non ho mai considerato un eroe. Sa comunque il fatto suo l’Albini, ma la sua mano in consolle si sente, e per magia (tanto per rimanere in tema di streghe) la policromia del sound degli Esben, tutte quelle sfumature che avevano reso intrigante la loro proposta, si riduce a soli due colori: il grigio/nero dei pieni e il grigio/bianco dei vuoti, le due dimensioni in cui si muove claudicante l'ugola stregonesca di Rachel Davies, sorta di Beth Gibbons dolente e visionaria, ultimo punto di contatto fra il passato e il presente della band, che oggi, più che mai, fugge da ogni definizione, approssimandosi ad uno sgangherato-post rock al femminile, che include fra i suoi punti di riferimento gli ultimi Portishead e la solita PJ Harvey.
Mistero, misticismo, contemplazione cedono dunque il passo ad un mood animalesco, selvaggio, istintuale, fatto di tribalismi ed assalti chitarristici di vaga derivazione post-hardocore: uno stravolgimento anche attitudinale che è ancora più sorprendente se si pensa che non sono intervenuti cambiamenti in line-up. Gli Esben sono infatti i soliti tre: la Davies (pure al basso) + Thomas Fisher (chitarre) e Daniel Coperman (batteria, electronics?). Dicono che era nell'aria, che se la sentivano, che erano finalmente maturi per farlo. Fare cosa? Essere più veri, spogliarsi da una sovrastruttura fatta di suoni complessi ed arrangiamenti tortuosi, liberarsi dagli orpelli inutili, scavare a fondo e vedere cosa c'era sotto, svelare dunque la loro “nuova natura”. Hanno cagato fuori dal vaso? Un po' sì, dato che non ci si improvvisa indie-noiser dall'oggi al domani: qualche passaggio va dunque a vuoto e il tutto forse finisce per essere un po' troppo tirato per le lunghe (otto composizioni per un totale di cinquantasei minuti), ma Fisher, a parte qualche ingenuità, se la cava il 70% delle volte, Coperman dietro alle pelli è un pasticcione di prima cartella, ma il suo drumming semplice e diretto è funzionale a quello che oggi i tre ci vogliono raccontare. E poi la voce della Davies, prodiga di stecche ma dal fascino indiscutibile, che è la solita cantilena che va giù e su seguendo un moto ondulatorio tutto suo.
L'arpeggio riverberato che solitario apre l'album è quindi fuorviante riguardo a quello che seguirà: quando infatti la cassa inizia a battere il tempo ed un basso iperdistorto incalza dirompente, emerge la vera statura della torrenziale traccia di apertura “Press Heavenwards” (dieci minuti), krautiana cavalcata di derivazione Neu!, inacidita dal lamento spiritato della Davies (sorta di David Tibet al femminile, ugola d'usignolo infestata da ossessioni swansiane); il drammatico rallentamento nel finale, fatto di battiti sconnessi ed un arpeggio sconsolato di marca squisitamente post-rock, tratteggia scenari in bilico fra il rito misterico ed una marzialità derelitta. A dimostrazione che l’adozione del verbo “alternative” non conduce alla perdita assoluta di atmosfera, che rimane rarefatta ed ancestrale nonostante l’impiego massiccio di chitarre elettriche. La languida ballad “Dig Your Fingers In” (primo singolo, titolare di un video a dir poco amatoriale) ci riporterebbe quasi ai vecchi tempi, se non fosse per il finalino noise, che ribadisce quella che sarà la cifra stilistica del nuovo corso. Cifra stilistica che viene confermata e con forza ribadita dall'irrompere del tribalismo isterico della successiva “No Dogs”, aperta e chiusa da ritmi nervosi e robuste chitarre elettriche (con tanto di finale epico da parte della Davies), ma che nel suo corpo centrale recupera quei toni soft ed intimi che sono l'inevitabile altra faccia della medaglia.
I quattordici acidi minuti della suite “The Jungle” e la successiva (quasi strumentale) “Those Dreadful Hammers” ospitano lo svolazzare solenne della tromba del guest Samuel Barton, che in questo contesto (fra droni e fruscii di chitarra) fa molto Ulver/Sunn O))) (vedete che li spregiate, quando in realtà sono già standard?). Segue quel gioiello di blues elettrificato che risponde al nome di “Wooden Star”, dove la disperata Davies e i suoi dimessi compari ci consegnano la loro prestazione migliore, a dimostrazione che è pur sempre nella dimensione del “turpe soliloquio” che i Nostri continuano a dare il meglio. L'incantesimo tuttavia, esaurito l'effetto sorpresa, ad un certo punto si spezza (che il passo sia stato forse più lungo della gamba?, che il cambio di rotta sia stato forse troppo brusco e repentino?) e così il gioco inizia a mostrare qualche scricchiolio: con fatica si arriverà alla fine dei quasi otto minuti di “Blood Teaching” (altra ballata sbilenca, per metà baraonda rumorista, che a questo punto non fa più notizia), mentre assai insipidi suoneranno i due minuti scarsi della conclusiva “Bathed in Light” (sola voce e chitarra, questa volta, a fare da contraltare alle detonazioni elettriche del brano precedente).
A tratti esaltante, in altri momenti non del tutto a fuoco, “A New Nature” poteva senz'altro uscire meglio, ma rimane un bel tentativo, da parte di una giovane e promettente band, di mettersi in gioco e perseguire con determinazione le proprie esigenze artistiche. Cosa rara di questi tempi.
E non parlo degli Esben and the Witch, parlo in generale. Avete presente la scintilla del talento? Quella sì, quella scintilla è ancora possibile, si intravede nell'involucro acerbo delle band emergenti, ma poi il passo successivo è sempre quello dell'album di maniera che perfeziona la formula ma ammaestra il talento, mentre l'ispirazione è per metà andata persa per strada. Fra l'album ispirato ma acerbo, dunque, e quello maturo ma da mestieranti, si sta estinguendo il fondamentale anello mancante: il capolavoro (o la serie di capolavori) che ci stava nel mezzo.
Se questo deve essere il nostro destino, allora ben venga un album suicida come “A New Nature”, finalmente un segno di vitalità da parte di queste giovani rock band che proprio non ce la fanno a bissare i fasti dei loro antenati (colpa, a dirla tutta, anche di un mercato discografico dal volto completamente nuovo, un mercato che si muove con logiche, soprattutto a livello di comunicazione e diffusione del prodotto, totalmente diverse).
Facciamo un passo indietro. Gli Esben and the Witch con “Wash the Sins Not Only the Face” dello scorso anno s'imponevano all'attenzione di stampa specializzata e pubblico (d'essai), gettando contestualmente le basi per interessanti sviluppi futuri: l'album mostrava un equilibrio, una consapevolezza ed un'abilità nell'amalgamare generi ed influenze fra loro distanti che erano veramente fuori dal comune per una band che si era formata appena pochi anni prima (nel 2008, per esattezza) e metteva a punto la sua seconda release; fra darkwave e rock sofisticato, atmosfere da sogno e landscape interiori, “Wash the Sins Not Only the Face” era certamente migliorabile, ma il grosso, come si suol dire, era sostanzialmente fatto: sarebbe bastato modellare/perfezionare quella formula, con una produzione maggiormente focalizzata, mediante l'impiego di arrangiamenti ancora più raffinati, facendo leva su una personalità meglio definita e su una accresciuta perizia tecnica. Facile, no?
Ed invece niente di tutto questo!, dimenticate quindi tutto lo scenario appena descritto perché il nuovo “A New Nature”, che fra l'altro sancisce il passaggio dalla vecchia etichetta Matador alla nuova Nostromo (di proprietà della band stessa), è tutta un'altra storia!
Via le tastiere, via i beat elettronici, via gli arrangiamenti patinati, via insomma praticamente tutto ciò che era stato l'apparato identitario del terzetto di Brighton, via tutto questo e dentro Steve Albini! Sì, avete capito bene, Steve “dammi-qualsiasi-cosa-che-te-la-trasformo-in-rumore” Albini, che per altro non ho mai considerato un eroe. Sa comunque il fatto suo l’Albini, ma la sua mano in consolle si sente, e per magia (tanto per rimanere in tema di streghe) la policromia del sound degli Esben, tutte quelle sfumature che avevano reso intrigante la loro proposta, si riduce a soli due colori: il grigio/nero dei pieni e il grigio/bianco dei vuoti, le due dimensioni in cui si muove claudicante l'ugola stregonesca di Rachel Davies, sorta di Beth Gibbons dolente e visionaria, ultimo punto di contatto fra il passato e il presente della band, che oggi, più che mai, fugge da ogni definizione, approssimandosi ad uno sgangherato-post rock al femminile, che include fra i suoi punti di riferimento gli ultimi Portishead e la solita PJ Harvey.
Mistero, misticismo, contemplazione cedono dunque il passo ad un mood animalesco, selvaggio, istintuale, fatto di tribalismi ed assalti chitarristici di vaga derivazione post-hardocore: uno stravolgimento anche attitudinale che è ancora più sorprendente se si pensa che non sono intervenuti cambiamenti in line-up. Gli Esben sono infatti i soliti tre: la Davies (pure al basso) + Thomas Fisher (chitarre) e Daniel Coperman (batteria, electronics?). Dicono che era nell'aria, che se la sentivano, che erano finalmente maturi per farlo. Fare cosa? Essere più veri, spogliarsi da una sovrastruttura fatta di suoni complessi ed arrangiamenti tortuosi, liberarsi dagli orpelli inutili, scavare a fondo e vedere cosa c'era sotto, svelare dunque la loro “nuova natura”. Hanno cagato fuori dal vaso? Un po' sì, dato che non ci si improvvisa indie-noiser dall'oggi al domani: qualche passaggio va dunque a vuoto e il tutto forse finisce per essere un po' troppo tirato per le lunghe (otto composizioni per un totale di cinquantasei minuti), ma Fisher, a parte qualche ingenuità, se la cava il 70% delle volte, Coperman dietro alle pelli è un pasticcione di prima cartella, ma il suo drumming semplice e diretto è funzionale a quello che oggi i tre ci vogliono raccontare. E poi la voce della Davies, prodiga di stecche ma dal fascino indiscutibile, che è la solita cantilena che va giù e su seguendo un moto ondulatorio tutto suo.
L'arpeggio riverberato che solitario apre l'album è quindi fuorviante riguardo a quello che seguirà: quando infatti la cassa inizia a battere il tempo ed un basso iperdistorto incalza dirompente, emerge la vera statura della torrenziale traccia di apertura “Press Heavenwards” (dieci minuti), krautiana cavalcata di derivazione Neu!, inacidita dal lamento spiritato della Davies (sorta di David Tibet al femminile, ugola d'usignolo infestata da ossessioni swansiane); il drammatico rallentamento nel finale, fatto di battiti sconnessi ed un arpeggio sconsolato di marca squisitamente post-rock, tratteggia scenari in bilico fra il rito misterico ed una marzialità derelitta. A dimostrazione che l’adozione del verbo “alternative” non conduce alla perdita assoluta di atmosfera, che rimane rarefatta ed ancestrale nonostante l’impiego massiccio di chitarre elettriche. La languida ballad “Dig Your Fingers In” (primo singolo, titolare di un video a dir poco amatoriale) ci riporterebbe quasi ai vecchi tempi, se non fosse per il finalino noise, che ribadisce quella che sarà la cifra stilistica del nuovo corso. Cifra stilistica che viene confermata e con forza ribadita dall'irrompere del tribalismo isterico della successiva “No Dogs”, aperta e chiusa da ritmi nervosi e robuste chitarre elettriche (con tanto di finale epico da parte della Davies), ma che nel suo corpo centrale recupera quei toni soft ed intimi che sono l'inevitabile altra faccia della medaglia.
I quattordici acidi minuti della suite “The Jungle” e la successiva (quasi strumentale) “Those Dreadful Hammers” ospitano lo svolazzare solenne della tromba del guest Samuel Barton, che in questo contesto (fra droni e fruscii di chitarra) fa molto Ulver/Sunn O))) (vedete che li spregiate, quando in realtà sono già standard?). Segue quel gioiello di blues elettrificato che risponde al nome di “Wooden Star”, dove la disperata Davies e i suoi dimessi compari ci consegnano la loro prestazione migliore, a dimostrazione che è pur sempre nella dimensione del “turpe soliloquio” che i Nostri continuano a dare il meglio. L'incantesimo tuttavia, esaurito l'effetto sorpresa, ad un certo punto si spezza (che il passo sia stato forse più lungo della gamba?, che il cambio di rotta sia stato forse troppo brusco e repentino?) e così il gioco inizia a mostrare qualche scricchiolio: con fatica si arriverà alla fine dei quasi otto minuti di “Blood Teaching” (altra ballata sbilenca, per metà baraonda rumorista, che a questo punto non fa più notizia), mentre assai insipidi suoneranno i due minuti scarsi della conclusiva “Bathed in Light” (sola voce e chitarra, questa volta, a fare da contraltare alle detonazioni elettriche del brano precedente).
A tratti esaltante, in altri momenti non del tutto a fuoco, “A New Nature” poteva senz'altro uscire meglio, ma rimane un bel tentativo, da parte di una giovane e promettente band, di mettersi in gioco e perseguire con determinazione le proprie esigenze artistiche. Cosa rara di questi tempi.
Promossi per il coraggio.
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