Belle sensazioni, belle reminiscenze. Avete presente quelle band NON rivoluzionarie NON innovative NON potenzialmente seminali, ma che in qualche modo riescono a regalarti un bel pomeriggio? La musica serve anche a questo, anzi, potremmo dire che dovrebbe servire soprattutto a questo. Con mosse aggraziate gli inglesi Esben and the Witch si posano sulla nostra esistenza, e non importa se sarà solo questione di un attimo.

Ci sono tanti modi per parlare di un'opera. Io, parlando dell'ultimo lavoro degli Esben and the Witch, provo a partire dal punto di vista sbagliato, quello delle reminiscenze (perché su di esse, ed esclusivamente su di esse, si basa il mio appassionato e poco obiettivo giudizio): vi ricordate i Third and the Mortal?, vi ricordate la loro opera prima “Tears Laid in Earth”?, quei paesaggi innevati?, quelle pianure e quegli alberi aridi sbiancati dalla neve? E in mezzo quella voce da usignolo? E i successivi “In this Room” e “Memoirs”?, lavori in cui la lungimirante band norvegese, in una terra in cui il black-metal era la Tendenza, ebbe l'ardire di affrancarsi anche dai confini del gothic-doom dell'etereo debutto per abbracciare sonorità post-rock, electro-noir e jazz?

Chiariamoci: gli Esben and the Witch non c'incastrano una mazza con il metal, neppure con quello che suona il meno metal possibile, eppure hanno il pregio di evocarmi sensazioni che mi suscitano formazioni come Anathema, Katatonia, The Gathering. Non è lecito nemmeno pensare che i tre ragazzi di Brighton si siano ispirati a queste band, ma piuttosto che ne condividano i gusti. Ma parlare di influenze significa perseverare nell'errore: Esben and the Witch è un territorio ibrido, dove si incrociano dark-wave, post-punk, post-rock, goth-rock, ambient, elettronica, dream-pop, tutto amalgamato con incredibili coerenza e spontaneità, tant'è che alla fine vi risulterà molto difficile definirli o catalogarli in un genere ben preciso, benché i nostri non inventino un bel niente (né si potrà tuttavia affermare che essi si rifacciano spudoratamente a questo o a quell'artista).

Prendiamo l'ugola fatata (nemmeno troppo stregata) di Rachel Davies, che canta con una naturalezza tale che ci sembra un uomo. Chiaro, non mi riferisco alla timbrica (femminilissima quella), ma all'approccio dimesso e sobrio: finalmente!, possiamo affermare, non ci troviamo innanzi ad una donna che deve essere per forza una prima donna! Mi spiego: il “rock”, se non è maschio, è molto maschilista, e laddove una cantante è riuscita ad affermarsi, succedeva perché si doveva trattare per forza di qualcosa di veramente sopra la media (cosa che non accade spesso con i colleghi maschietti). Finalmente adesso una ragazza che non vuole essere la nuova Janis Joplin, la nuova Patti Smith, la nuova Nico, la nuova Siouxsee, la nuova Bjork. Vabbé, un po' PJ Harvey lo è, e infatti la fanciulla ammette di averla ascoltata molto durante la registrazione dell'album, ma se PJ Harvey dev'essere, lo è in modo aggraziato, dolce, sornione, e quindi nemmeno PJ Harvey può essere presa come vera pietra di paragone. Ma è bene così, Rachel Davies incanta per la sua bravura e perché non ha bisogno di fare salti mortali per imporsi: non è altro che il compendio perfetto per lo spettacolo allestito dai suoi due compari, Thomas Fisher (alla chitarra: un tocco, il suo, elegante, eclettico, altalenante fra delicati arpeggi e raffinate tessiture di ottantiana memoria) e Daniel Copeman (diviso fra tastiere, sintetizzatori e beat elettronici).

Arriviamo dunque al disco: “Wash the Sins Not Only the Face”, uscito nel 2013, è il secondo lavoro degli Esben and the Witch, dopo il promettente esordio “Violet Cries” del 2011. Una band giovane, quindi, eppure già precocemente matura. “Wash the Sins Not Only the Face” porta in sé un equilibrio che ha del miracoloso: suoni perfetti, produzione perfettamente calibrata, perfetto equilibrio fra pieni e vuoti, stratificazioni sonore che hanno del sublime, un continuo sfalsamento di piani, quello contemplativo e quello psicologico, un compenetrarsi unico fra pathos naturalistico e paesaggi interiori. “Mondo” e percezione si fondono e confondono continuamente, come accade nei migliori film di David Lynch: e che bel complimento sarebbe questo per i tre musicisti, che fra le altre cose si ritengono ferventi ammiratori dell'opera cinematografica del regista americano. Il fatto è che anche questo è un elemento fuorviante, poiché, a livello esplicito, di lynchano c'è ben poco nella musica degli Esben and the Witch, convinti che le loro influenze fondamentali non vadano ricercate nella musica, ma nel cinema e nella letteratura.

Ripartiamo quindi da quello che poteva essere il migliore punto di partenza: il nome della band, che non è una trovata ammiccante per attirare gonzi arrapati in cerca dell'ultima ciofeca in campo electro-dark con voce femminile, ma che trae ispirazione da una novella della tradizione danese. E giù di lì passando da miti, credenze, leggende, il misticismo del folclore, l'immaginario che si porta dietro tutta la letteratura gotica e romantica inglese dell'ottocento. Da qui bisogna partire: per quanto “moderna” (fatta di elettronica e di rock, di suoni sintetici e qualche volta anche ruvidi) la musica del trio si fa evocativa ed ancestrale, portando con sé un'eco di esoterismo straniante che non si fa mai pronunciato tanto da far gridare dalla paura. E' un sogno che si racconta, la musica degli Esben and the Witch, e poco importa se non vengono cambiate le carte in tavola poste dal panorama discografico degli anni duemiladieci, in piena overdose di revivalismi: direi che ci possiamo accontentare delle emozioni. Delle reminiscenze.

In verità l'album parte con il piede sbagliato, con il brano che personalmente gradisco di meno: le ritmiche velocissime con cui si apre “Iceland Spar” sono a dir poco fuorvianti: la sua struttura elementare (l'alternarsi matematico di scriteriata velocità e pause ambientali), la sua durata esigua (nemmeno tre minuti) non erano forse il miglior modo né quello più rappresentativo per cominciare. I brani che seguiranno, invece, ci mostreranno una band diversa, dinamica ed attenta a valorizzare il singolo dettaglio all'interno di composizioni anche articolate e ricche di cambi d'atmosfera. Già la seconda traccia “Slow Wave” si apre con geometrie di chitarra che ricordano il Fripp di “Discipline” (permane quindi un po' di lacca anni ottanta): le ritmiche intelligenti, le frasi jazzate della chitarra, le brillanti soluzioni adottate in sede di arrangiamento, sono l'intrigante sentiero su cui scivolano le trasognate narrazioni di Rachel Davies, persa fra i dedali di un paesaggio onirico sospeso fra folclore e mistero, stupore di fanciullo ed evocazione stregonesca. In tutto “Wash the Sins Not Only the Face” non troveremo l'episodio che farà la differenza, poiché esso vive di una moltitudine di preziosismi, di momenti che sfumano in altri, con leggiadria, eleganza, un flusso sonoro ritratto in tenui colori, tendenti alla malinconia, ad un velato romanticismo, ad una sofferta epicità, senza mai dimenticare le lezioni della wave della decade ottantiana.

“Shimmering”, “Deathwaltz” (il primo singolo), “Yellow Wood” e “Despair”, messe in fila, una dopo l'altra, sono un bel poker d'assi, una significativa panoramica delle potenzialità espresse dalla band di Brighton. Le prime tre ricordano in più circostanze gli ultimissimi Anathema, senza mai richiamarli esplicitamente, sia nei loro momenti più meditativi (nel loro splendore cinematico degno dei Pink Floyd più introspettivi) che nelle accelerazioni adrenaliniche; la quarta, invece, osa affondare il coltello nella cacofonia di un post-punk che nel ritornello deraglia oltre i limiti della dissonanza. Il tutto eseguito con cristallina precisione, immersi in suoni limpidi, senza però rinunciare all'impatto emotivo (quello sempre presente!).

Negli oltre sette minuti della conclusiva “Smashed to Pieces in the Still of the Night”, infine, la narrazione dei tre tocca picchi inauditi di capacità descrittiva, immaginifica poesia, impeto visionario: un drammatico scendere e risalire per impervi sentieri emotivi, una quiete solo apparente, tradita, travolta nel finale dalle inaspettate detonazioni della chitarra elettrica (ancora potente e visionario post-rock) e da cori apocalittici che ci riportano di colpo alla violenza esplorata con l'iniziale “Iceland Spar”.

Il cerchio si chiude quindi, e a noi fortunatamente è concesso di rivivere l'esperienza, anche solo per un attimo ancora, con una semplice e lieve pressione del tasto play.

Belle emozioni, belle reminiscenze.

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