Dieci fermate...

Dieci tappe per un' immersione totale in uno scenario idilliaco, dove possiamo sentirci parte integrante della Natura. Un Universo fatato, nella quale realtà e finzione si confondono inesorabilmente. Tutto ciò è possibile mediante l'ascolto di "A Sombre Dance" degli austriaci Estatic Fear, combo del quale si sono perse prematuramente le tracce. Pubblicato nel 1999, presenta al suo interno musica tutto fuorché ordinaria.

Il nucleo del progetto ruota intorno alla figura di Matthias Kogler, che si occupa della chitarra (acustica ed elettrica), del pianoforte e soprattutto del songwritting. La sua creatura musicale si concretizza infatti in un ipotetico incontro tra i Doom Metal dal piglio plumbeo e nebuloso e frangenti folk e classici.Questi ultimi sono creati grazie all'apporto di strumenti come il liuto, la viola, il violoncello, l'organo e soprattutto il flauto, spesso ingiustamente bistrattato nel Metal a favore di colleghi più blasonati (archi), ma che trova finalmente qui lo spazio e l'importanza che gli spetta. Le partiture cantate da Claudia Schöftner, dotata di una timbrica cristallina e soave si mischiano amabilmente con quelle di Jürgen Lalik, che, provvisto di un growl quasi sussurrato comparabile ad un eco lontano , non prende mai il sopravvento, ma lascia alla voce femminile il ruolo di protagonista.

Il risultato è qualcosa di sconcertante nella sua bellezza: una danza impossibile da fermare, in cui affiorano con forza componenti medievali che arricchiscono le composizioni. Un andante e cullante sinfonia che non conosce concetti come la fretta e la velocità. Un turbine di sentimenti ammirabile nel suo sapersi alternare fra due interpretazioni diametralmente opposte: spiragli di estrema estasi e letizia convivono con frangenti di tormentata e disperata oscurità. Nessun aspetto però emerge a discapito dell'altro, e ci troviamo davanti ad una simbiosi perfetta, che non rimane certo prigioniera in uno schema prefissato.

"Intro (Unisono Lute Instrumental)" costituisce il preambolo all'affresco onirico targato Estatic Fear. Un nostalgico retrogusto dolce-amaro domina la prima parte della strumentale, sostituita infine dall'apoteosi del disincanto. Anche "Charter I" viene introdotta da un liuto, alla quale si uniscono timidamente dei synth. Il brano è ipnotico per tutta la sua durata ed è un continua alternanza tra Claudia , che dona un accento narrato alla sua interpretazione, e le chitarre, che tessono costantemente melodie che incarnano il desiderio di avvolgerci e trasporartarci in ben altre realtà. Il battere della pioggia, le carezzevoli e delicate note di flauto, il piano protagonista di un'interpretazione sinuosa. Nulla di meglio per impressionare grazie alla magia Autunnale di "Chapter II". Ma fa capolino il grigio Inverno: un muro chitarristico monolitico ed un growl graffiante e tenebroso che raggelano le membra . Viaggiamo ancora su binari qualitativi superlativi con l'apparentemente scarna ed essenziale "Charter III", che in realtà ammalia con la sua forza passionale, calda, "viva". "Chapter IV" è sicuramente il Gioiello per eccellenza, il più significativo per struttura e per intensità: tutti hanno il loro momento di fervido protagonismo, con un consequenziale cambio di umori e di atmosfere: ma il climax assoluto viene raggiunto dal Flauto, debordante di malinconia e dotato di un fascino arcano.

"Chapter V" brilla di luce propria: una Marcia lenta e tranquilla, dove non mancano momenti di inaudita drammaticità grazie alla sua profonda essenza incantatrice. "Chapter VI" mette letteralmente i brividi: Vede soltanto la presenza del growl ed è capace di far cadere un drappo d'amarezza, di strazio. Tetra come una notte di luna Nuova, non rinuncia però a qualche fessura di speranza, soprattutto nella conclusione. "Chapter VII" è il secondo pezzo soltanto strumentale. Contornata da due chitarre classiche e da delirante effettistica si può considerare in linea con il resto del materiale. "Chapter VII" scorre via che è una bellezza: il gruppo è stato fenomenale a trasmettere a tratti un feeling di sacrale misticismo, a tratti impulsi di calma surreale. Infine "Chapter IX" ha l'ardito compito di chiudere le danze. Una cupa litania che sintetizza e mette in evidenzia il classico e struggente sound immaginifico che tanto abbiamo apprezzato in tutto il full-leight.

I Musicisti sono ridotti ad un unico corpo per regalarci rugiada cristallina di inalterabile valore, polifonia sgargiante di innato spessore. Arte semplicemente pura ed eterna, che sfiora le corde dell'animo di coloro che lo ascoltano.

Un sogno ad occhi aperti, un ritorno impossibile.

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