Il clamore definitivo, culminato nel successo mondiale, scaturì da un jingle. Un impresario di Stoccolma chiese a Tempest, così come a suo tempo quelli della robiola Ivernizzi potevano chiedere a Raoul Casadei, di buttare giù un riff da riprodurre mentre gli avventori prendevano posto nel suo locale, il ‘Galaxy’.
Tempo dopo Leven, il bassista, gliela butto lì: “Joey, ma da questa cosa perché non tiri fuori una traccia ? Secondo me c’è del potenziale”. Per contro, Norum, il chitarrista originale, precisò : “Ma no, ma dai, ma vi pare…? Dobbiamo proprio ?”.
Non gli diedero retta: nacque “The Final Countdown”, il brano, ed il resto, dai, lo conoscete.
L’album omonimo, trainato dal singolo, fu un successo planetario. Spaccò ovunque, facendo breccia in un momento in cui il compromesso tra bubble-gum, pop patinato e rock raggiunse il suo culmine.
La Epic non concesse ai 5 membri la facoltà di riprendere fiato e, con ancora gli echi di “The Final Conuntdown” a far refolo nelle hit parade del globo, impose per l’anno solare 1988 la release del nuovo album.
John Norum aveva abbandonato il progetto a metà tour, nonostante il successo stratosferico.
“Ero stanco dei playback, delle tastiere che sovrastavano la chitarra. Non era più il nostro sound, non mi ci riconoscevo”.
Congedatolo con una prece, gli altri 4 reclutarono in fretta e furia Kee Marcello.
Andò di lusso: meno irruento del primo ma più tecnico e sopraffino, condusse egregiamente i nuovi compagni a conclusione del tour e diede una mano a buttar giù qualche idea per il nuovo album.
E, parere di chi vi scrive, fu una delle poche note positive.
“Out Of This World” consolida a fatica la band sui livelli del predecessore.
Non ha vette importanti, non ha slanci, non esplora nuovi territori. Ha il fiato corto, arranca. Prodotto da Ron Nevison, voluto dalla band per i precedenti incoraggianti con Kiss, Led Zeppelin e Ozzy Osbourne, si ascolta volentieri ma si ri-ascolta con l’impazienza di chi vuole arrivare al capolinea.
Proviamo a delinearne i motivi. La fretta, ce lo insegnano i nonni, è cattiva consigliera: la registrazione di un disco non fa eccezione, salvo casi particolarissimi e isolati.
L’apporto. Come nel predecessore, tutto andò a gravare sulle spalle di Tempest, eccezion fatta per una cooperazione con Marcello per ‘More Than Meets The Eye’ e ‘Just The Beginning’ che infatti hanno tratti gradevoli.
Il resto è un deja-vu malcelato, una brutta copia del predecessore, uno stanco proiettarsi al presente strizzando l’occhio al passato fino a ‘cecarselo.
A me la voce di Tempest non piace, pur essendo intonato ha un approccio al microfono che mi disturba, ma gli va dato atto di aver fatto quanto nelle sue possibilità, anche di più, anche al piano con il solo supporto della voce come in ‘Tomorrow’ che chiude candidamente l'album.
Era impensabile che il disco replicasse il successo di “The Final Countdown”, infatti non ci andò nemmeno vicino, pur facendo capolino ovunque e generando morigerati consensi.
Come spesso accade, gli appassionati del genere, anni dopo, rivalutarono il progetto. Lo stesso non si può dire per i componenti della band.
Marcello, che come detto fu colonna portante sia in studio che dal vivo, ricorda mal volentieri i rimbrotti di Ron Nevison in studio, che mai pago lo interrompeva bruscamente durante gli assoli.
“Suona troppo appiccicoso” è invece il commento postumo del batterista, Ian Haugland.
E insomma, si poteva dare di più, come precisarono un anno prima Morandi, Ruggeri e Tozzi, aggiungendo che ‘come fare non so, non lo sai neanche tu’ e di “Out Of This Word” giusto questo ci rimane, un’incompiuta che poteva essere molto di più. Più levigata, più arricchita, più approfondita e, perdio, meglio rimasterizzata dalla Hard Candy nel 2018 che ragazzi miei suona peggio che nel 1988.
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