EUROPE - PRISONERS IN PARADISE (1991, SONY)
TRACK LIST:
01) ALL OR NOTHING
02) HALFWAY TO HEAVEN
03) I’ LL CRY FOR YOU
04) LITTLE BIT OF LOVIN’
05) TALK TO ME
06) SEVENTH SIGN
07) PRISONERS IN PARADISE
08) BAD BLOOD
09) HOMELAND
10) GOT YOUR MIND IN THE GUTTER
11) ‘TIL MY HEART BEATS DOWN YOUR DOOR
12) GIRL FROM LEBANON
Prigioniera in paradiso… così dovrà essersi sentita la band del lungo crinito singer Joey Tempest dopo l’uscita del platter “Out Of This World” (1988), album in possesso di alcuni slanci memorabili ma incapace, nella prassi, di bissare il successo planetario del suo multi–platinato predecessore “The Final Countdown” (1986).
Precipitati in una sorta di limbo, in cui la critica pare sottovalutarli ed il pubblico snobbarli a causa dell’esplosione di nuovi idoli per teen–agers (Winger, Slaughter e Def Leppard in primis) gli Europe decidono di mettere da parte le frustrazioni personali e recuperare la dignità artistica che aveva contraddistinto le loro prime due uscite discografiche, tentando il tutto per tutto con un nuovo dinamico LP, la cui produzione viene affidata al competente Beau Hill, già producer di acts come Alice Cooper, Ratt e Twisted Sister (nel controverso “Love Is For Suckers”).
Il genere proposto prosegue idealmente il percorso intrapreso con “Out Of This World”, accentuando le influenze A.O.R. e riducendo drasticamente le reminescenze power che avevano caratterizzato gli esordi. Confermando una mia vecchia teoria personale, secondo cui le produzioni di Hill, per quanto sfavillanti e di notevole spessore, non fossero mai decisive (lo dimostra il caso dei già citati Alice Cooper e Ratt, che ripiegarono successivamente su Desmond Child, o dei Warrant, che gli preferirono Michael Wagener per il loro grintoso “Dog Eat Dog”), anche in questo lavoro emergono alcuni limiti, soprattutto a livello di dinamicità del sound che, probabilmente anche per scelta stilistica, giunge all’ orecchio eccessivamente “pulito” e privo dell’ incisività tipica dell’operato di nomi quali Bruce Fairbairn, Tom Werman o Bob Rock.
“Prisoners In Paradise” è, però, un disco indubbiamente interessante: il trittico iniziale, composto dall’energica “All or nothing”, dall’esplosiva “Halfway to heaven” e dalla superba ballad “I’ll cry for you” è da antologia. Purtroppo, però, l’album non prosegue sullo stesso livello e le ottime premesse non si concretizzano appieno, mostrando così in un’opera piuttosto discontinua, che alterna perle d’indiscusso valore ad episodi decisamente trascurabili. In molte occasioni gli Europe si accontentano di percorrere strade conosciute, uscendone persino a testa alta, come avviene in “Little bit of lovin’”, o nella più grintosa “Bad blood” ma sovente la vena compositiva di Tempest e soci si lascia guidare su lidi pericolosi, impantanando la band nei fanghi ingloriosi di un’infruttuosa presunzione. La “pietra dello scandalo”, che ben incarna quanto detto, è rappresentata dalla titletrack, un pezzo melodico che rasenta il plagio nei confronti della beatlesiana “Let it be”, facendo traballare ulteriormente la credibilità artistica degli scandinavi. La band svedese vorrebbe completare la propria “americanizzazione”, convinta, anche a ragione, della validità dei propri mezzi (ricordiamo che Kee Marcello è un axe–man capace di spaziare dal classico heavy rock al blues più intenso e lo stesso Tempest, per quanto ampiamente debitore dello stile di David Coverdale, è un singer di indubbia qualità) e della reale possibilità di surclassare le melodie facili di molte formazioni d’oltre oceano: qualcosa, però, va storto ed il combo si ritrova nella polvere. Gran parte dell’audience volge lo sguardo altrove (per ironia della sorte, ciò avviene soprattutto negli U.S.A.…) e l’album non accontenta nessuna frangia di pubblico, né chi voleva un nuovo “The Final Countdown”, né, tanto meno, gli appassionati di hard rock, abbondantemente soddisfatti dall’ uscita degli “Use Your Illusion I & II” dei Guns N’ Roses, oppure distratti dall’emergere del movimento grunge.
Stretta fra due morse, considerata sorpassata e demodé, nonché eccessivamente pacchiana e poco credibile, la band di Joey Tempest ottiene discreti riscontri solo in Europa (in Italia l’album vende bene) ma “Prisoners In Paradise” fotografa nel suo titolo la situazione del gruppo, ormai dimenticato o ricordato solo col sorriso sulle labbra. Ciò che sarebbe stato giusto veder succedere ai tempi di “Out Of This World” avviene con l’uscita di quest’album, di qualità nettamente superiore ma viziato da una latitanza dalle scene eccessivamente prolungata e da un irreversibile cambio della guardia nelle preferenze dell’ audience mondiale. Peccato, perché pezzi come la meravigliosa “Homeland”, con cori sopraffini e chitarre suadenti, o l’ambiziosa “Girl from Lebanon” avrebbero meritato di essere apprezzati a dovere da ogni estimatore di A.O.R. ed hard rock melodico.
“Prisoners In Paradise” sarà il momentaneo canto del cigno degli Europe, almeno fino ad un’acclamata ed imprevista reunion nel nuovo millennio: al gruppo resta la soddisfazione di aver chiuso la prima parte della propria carriera dando alle stampe un disco forse troppo pretenzioso, ma indubbiamente interessante.
(Enrico Rosticci)
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