Dopo il tagliente ma variegato “The Atlantic” gli Evergrey non perdono troppo tempo e due anni dopo pubblicano il dodicesimo album “Escape of the Phoenix”. Gli svedesi sono ormai una garanzia di qualità e anche qui mettono tutta la loro perizia compositiva.
La proposta non cambia molto rispetto alle precedenti tre uscite, sostanzialmente prosegue la fase artistica in atto, che si presenta più dura che in passato ma senza esagerare, che fa un intelligente uso di moderni synth e che ha poco a che vedere con il passato symphonic-power-prog del primo periodo o con il sound più estremo del periodo “Torn”. Con l’ultimo disco avevano però spinto un po’ di più con le chitarre, qua vi è più moderazione, sound affilato ma con dei freni. Il lavoro di tastiere e synth continua tuttavia a fare la differenza, varia significativamente da brano a brano dando alla singola traccia un’identità a sé, ogni parte stupisce l’ascoltatore e finisce per essere quella cosa che permette di parlare di album variegato nonostante rimanga confinato in un unico genere e in un unico stile, senza il loro apporto forse parleremmo di un normale album metal, di classe ma senza nulla che faccia saltare dalla sedia. L’uso più brillante lo si fa in brani quali “Where August Mourns”, “A Dandelion Cipher” e “The Beholder” (in duetto con James LaBrie dei Dream Theater); da evidenziare anche le atmosfere più gotiche, che rimembrano un po’ il vecchio periodo, di brani come la title-track o “Leaden Saints”; in “Run” invece il synth è più raggiante e si affaccia un organo vecchia maniera. Molto ispirati anche i brani più lenti, “Stories”, “In the Absence of Sun” (con arpeggi cupi ancora riconducibili al primo periodo) e “You from You”, non etichettabili come ballad in quanto conservano un sound ruvido. “Forever Outsider” e “Eternal Nocturnal” appaiono invece più dirette ed essenziali, chitarre taglienti senza troppi orpelli e tastiere più nettamente in secondo piano, non è un caso che siano state scelte come tracce di lancio.
Però sembra mancare qualcosa, mi aspettavo quel tocco in più, quel qualcosa di diverso e superiore che emergesse dalla superficie, “Escape of the Phoenix” appare un po’ troppo come la ripetizione di quanto fatto nei precedenti tre album e non aggiunge davvero nulla, non c’è nessun tratto distintivo di rilievo che invece in “The Atlantic” c’era. Ma è solo questione di mia personale pignoleria, mi aspetto sempre il cambiamento dopo tre-quattro album, a dire il vero anche all’interno di una stessa fase mi aspetto piccoli elementi distintivi fra un disco e l’altro, così come vedo il quarto della fase come quello transitorio, come l’anello di congiunzione. Ma sai, mi sono formato ascoltando i Rush, quindi direi che è normale. Più che altro ho il timore che anche gli Evergrey interrompano la propria evoluzione adagiandosi al calore della comfort zone. Il cambiamento me lo aspetto però nel prossimo lavoro; proprio così, la band svedese è ispiratissima e a pochi mesi da quest’uscita è già tornata al lavoro sul tredicesimo album… sperando che apra davvero una nuova fase.
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