“Il più potente, oscuro e vario della nostra carriera”. Così gli Evergrey avevano annunciato il loro undicesimo lavoro. Ma vediamo se davvero possiamo definirlo così.

Gli Evergrey si sono proposti al pubblico fino a metà del decennio scorso con un power metal potente al punto giusto e molto melodico con cavalcate potenti ma senza esagerare e accompagnamenti tendenzialmente molto orchestrali. Poi però hanno cominciato ad indurire le sonorità, dapprima con il ruvido ed immediato “Monday Morning Apocalypse” (forse il loro lavoro più semplice e diretto) per esagerare poi con il potentissimo e oscuro “Torn” ma anche con il più variegato “Glorious Collision”; poi la nuova sterzata, che ha portato alla situazione attuale, con chitarre taglienti ma senza esagerare e con anche soluzioni nuove e moderne prese in prestito dalle moderne tendenze metal.

Che “The Atlantic” sia più pesante rispetto alle ultime due uscite siamo tutti d’accordo. Le chitarre sono nettamente in primo piano e suonano affilate come lame, mai così taglienti. Brani come “A Silent Arc” (almeno la prima parte), “A Secret Atlantis” e “This Ocean” sono dei veri e propri macigni, si abbattono a terra con gran impeto, nemmeno “Weightless” e “Currents” scherzano affatto, la prima è praticamente una sorta di “Pull Me Under” dei Dream Theater, sia per ritmo che per loop di tastiere, ma con il triplo della potenza, provare per credere. Merita particolare attenzione il lavoro del basso, un tempo decisamente in ombra ma ora sempre più protagonista nelle composizioni del gruppo; anche qui la parola “tagliente” sembra quella più adatta, anzi, qui siamo di fronte ad un caso emblematico, perché non avevo mai sentito un basso così pestante e metallico finora, possiamo quasi dire che questo è il disco che smentisce definitivamente il luogo comune sulla dubbia incisività del basso nell’economia musicale; eppure quel basso, pur pestando non si vuole mai porre davvero in primo piano, semplicemente si mescola con le chitarre creando quell’effetto “lama rotante” che trascina l’ascoltatore in un autentico vortice. Effettivamente la scelta della copertina quanto quella del titolo si rivela più che mai azzeccata, quando si ascolta il disco sembra veramente di essere sopra ad un vascello in un oceano in burrasca con le vele strappate dal vento.

Il lavoro tastieristico sebbene in secondo piano è comunque di una certa importanza ed offre una buona varietà fra tappeti tetri e parti di piano dall’incedere lento che rendono il sound piuttosto angoscioso, sofferto e oscuro, innesti elettronici (evidenti soprattutto in “The Beacon” e come non citare l’interludio di synth “The Tidal” che spezza in due l’album) che irrobustiscono il sound rendendolo ulteriormente più spigoloso e assoli e passaggi dal sapore vagamente neo-prog o classic prog (come quelli in “A Secret Atlantis” e “Currents”).

Un brano che tuttavia spezza il ritmo incalzante è “Departure”, che esalta il lato melodico e la voce di Tom Englund, che si conferma una delle grandi voci in circolazione (è stato perfino chiamato per sostituire Ray Alder nei Redemption, fate un po’ voi…), ma che paradossalmente mette in evidenza il suono metallico del basso più che in qualsiasi altra traccia e lo fa senza ostacolare l’impostazione melodica del brano. Più spazio alle aperture melodiche anche in “End of Silence”. Il brano più particolare è invece “All I Have”, con quel suo incedere lento e sofferto e quei piccoli ruggiti di chitarra che conferiscono un’aria piuttosto alternative, quasi si sentono lontani echi di Tool.

Alla luce di tutto questo… “The Atlantic” è davvero il loro lavoro più duro e vario? Personalmente risponderei “non esattamente”, il lavoro di chitarra più potente e chiassoso penso lo abbiano proposto nel 2008 con “Torn”, credo sia quello il loro disco più duro e oscuro in assoluto, dove tra l’altro le tastiere erano parecchio soffocate dalle chitarre stesse, chitarre che sparavano riff ben più opprimenti e cavernosi che in quest’ultima release; forse potremmo paragonarlo più a “Glorious Collision” perché duro e variegato nei suoni, anche se questi era essenzialmente la prosecuzione del sound cavernoso di “Torn”; “The Atlantic” invece sembra collocarsi più nella fase più recente della produzione della band svedese, sembra seguire le orme dei precedenti due album ma con sonorità più esplicitamente estreme (d’altronde la stessa band lo presentò come terza e ultima parte di un concept già avviato con i precedenti due album). Disco più pesante non lo trovo proprio corretto, forse lo si può definire il più tagliente, perché questa è l’impressione che si ha, di una lama affilata. La palma di album più vario invece credo spetti al disco del 2014 “Hymns for the Broken”, lì venivamo davvero sballottati dal brano più moderno alle incursioni nel vecchio stile Evergrey, dalla semi-ballad al brano estremo, dalle melodie più oscure a quelle più luminose, tutto con una certa disinvoltura e varietà di soluzioni. In ogni caso “The Atlantic” non è la copia di nessun disco precedente, è un disco tranquillamente dotato di una sua identità, gli Evergrey rimangono fedeli a determinati elementi ma non vogliono mai rifare lo stesso disco. La band si conferma ancora una realtà del metal brillante e spesso sottovalutata.

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