Gli Exodus non hanno mai nascosto la loro ammirazione per gli AC/DC.

"Force Of Habit" è un'ulteriore omaggio ai 5 australiani (già coverizzati con "Overdose" e "Dirty Deeds Done Dirt Cheap"),  che sigilla mestamente la gioventù musicale degli Exodus, con le due asce Gary Holt ed Rick Hunolt come unici superstiti della line-up che ha partorito "Bonded By Blood", accompagnati da Steve "Zetro" Sousa alla voce, da Mike Butler al basso (al posto del  bass player originario Rob McKillop), e dal batterista John Tempesta, mai accettato pienamente dai fans che rimpiangono il dinamismo Tom Hunting dietro alle pelli.

Nel 1992 sboccia quest'album, ultima salubre spiaggia concessa dalla major Capitol Records, dopo il fiasco di "Impact Is Imminent", colpevole di mestiere, di svogliata ispirazione e drumming ordinario, col beneficio parziale di buoni assoli di chitarra che reggono la baracca. Eccoli allora in studio fiduciosi, assieme al bennato Chris "Painkiller" Tsangarides producer dei Judas Priest (era già coinvolto nel 1976 in "Sad Wings Of Destiny").

"Force Of Habit" è l'album più potente fin qui prodotto, dal suono compatto, camion thrash proveniente dalle autostrade, motori al minimo di Scania e Volvo, riff rallentati "She's Got Balls" con ricostituente groove, parola magica, speciale, che non è stata inserita stranamente nel messaggio di Arecibo, unguento verbale losco tattico utilizzato per identificare una malsana digestione di riff pressati ed invecchiati, che passano gli anni '70 con l'hard rock, travalicano il metal anni '80 ed arrivano, dopo un viaggio allucinante in orecchie smemorate, su questo disco dall'orribile copertina e dalle promesse compositive non mantenute.

L'opener "Thorn In My Side" è l'ideale per lanciare il tutto, un frisbee metallico dal riff pesante come l'osmio, un moto del proiettile ubriaco che finisce stanco sulle nostre orecchie grazie a Zetro, ma non grazie all'assolo standard che ci costringe alla pressione lesta su FF, passando per la bella e chiassosa "Me Myself And I" (ma il brano omonimo di Joan Armatrading sarebbe stato azzeccato per una rivisitazione più fragorosa), fino alla title-track lenta ed inesorabile, dall'incedere abulico. "Bitch" è la cover dei Rolling Stones che nessuno aspetta, fedele allo stampo antico, ma dentro abiti aggressivi. E sappiamo benissimo che l'album proseguirà di questo passo, come una specie di brontosauro satollo di erbacce che non digerisce."Fabolous Disaster" è già lontano. Tredici tracce sono uno sfinimento, un palo della cuccagna assai unto, sovraccaricato da altre due bonus track nella versione giapponese, ovvero "Crawl Before You Walk" e "Telepathetic" (quest'ultima però abbellita dagli splendidi assoli botta e risposta), che impediscono all'ascoltatore di salire in alto con la fantasia, con la creazione di immagini, come potrebbero ravvivarle una "Disposable Heroes". Eppure gli Exodus non puntano a questo ma servono nel piatto temi scottanti, ed allora l'ascolto si fa più interessante con qualche pezzo d'artiglieria come l'eccellente ed evocativa "Fuel For Fire", che affronta il problema della Guerra del Golfo:

"Il Sangue scorrerà - nel deserto di sabbia/uccidere la gente - barbara terra/Una guerra per la pace - Capisco/Ottenere il combustibile - il piano maestro/Il sangue scorrerà - nel deserto di sabbia/Uccidere la gente - barbara terra/Una guerra per la pace - Capisco Ottenere il combustibile - il piano maestro.."

Spazio per la velocità in "Count Your Blessings", dove Tempesta si mette finalmente in evidenza con una buon drumming, al contrario di "One Foot In The Grave", marcia funebre senza alcuna pretesa doom ma anche sincera denuncia contro la droga, piaga vissuta sulla loro pelle, che i nostri rammenteranno  anche all'epoca di "Tempo Of The Damned". La cover di Elvis Costello "Pump It Up" è una delle migliori sorprese dell'album, nemmeno paragonabile all'originale, nonostante riesca a fissarne le coordinate musicali, la sua aura rock semplice e schietta. Testo stralunato in "Feeding Time At The Zoo", ritratto di bestie e uomini che si mescolano senza soluzione di continuità, laddove tristi pensieri leopardiani si addensano in "Good Day To Die", analisi impietosa di un suicidio, la sua condanna da parte della band, una netta presa di posizione, un invito alla rinuncia:

 "Hai paura del mondo intorno a te, hai paura di quello che potrebbe essere?/Pensate a quelli che vi amano/tutte le cose che voi non potrete mai vedere/Fuori controllo come un treno galoppante/disperato fino alla fine tutto il suo dolore/Hai avuto modo di capire non c'è un migliore progetto se non quello di aprire gli occhi..."

 Le note fluiscono opprimenti, il ritmo è lento, nevrotico, quasi un continuo dilaniarsi e porsi domande, senza accelerare. Il thrash si decompone, si affloscia a semplice zerbino, diviene semplice mezzo. L'hardcore rutilante sparisce ma emerge la potenza, zoppicante forse, ma sempre pronta a ripartire, così come gli assoli di Holt ed Hunolt, coinvolgenti ma mai sopra le righe, a volte pieni di tristezza ("Fuel For Fire") oppure secchi e concisi, protagonisti delle novità, assieme ad uno Steve Sousa traboccante di energia. Paradossalmente è il disco più thrash della band, se per questo termine intendiamo sound grezzo, liriche che fanno riflettere, velocità (che qui latita) per meditare sulle nostre peripezie quotidiane, in mezzo a muri di autotreni, traffico beffardo, sudorazione accelerata, code agli sportelli, parcheggio vattelapesca, scartoffie dal disio chiamate, multe col sorriso fra le labbra. Ed in mezzo la musica che fluisce violenta dall'autoradio, nelle liriche come nel tessuto ritmico, ormai nervosa come noi. La varietà compositiva unita alla potenza, che aveva portato "Fabolous Disaster" nell'olimpo del thrash metal, è perduta per sempre.

"Force Of Habit" sembra un lavoro incompiuto, quasi forzato, il meno amato da Gary Holt. Oggi lo preferiremmo con 4 o 5 pezzi in meno, con qualche intermezzo acustico, qualche scenario sonico variegato a rafforzare le suggestioni dei testi. Dopo questo disco rimangono 5 anni di rimpianti prima della reunion col singer originario Paul Baloff, che produrrà il buon live "Another Lesson In Violence". Un'altra lezione di nostalgia.

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