Gli Eyehategod, gruppo dal monicker indiscutibilmente molto provocatorio, provengono dal profondo Sud degli Stati Uniti e suonano un genere che può essere classificato come Post Harcdore così come Sludge (un Hardcore punk esasperatamente lento).
La band è in attività da ormai più di quindici anni e si può dire che sia stata la prima a innescare il fenomeno, appunto, del Post Hardcore, ovvero un genere che ha la sua discendenza diretta dal Punk più violento e oltranzista ma che invece di trattare temi di argomento politico, tratta il disagio interiore degli uomini. Non mi riesce di citare gruppi di riferimento perché sono stati proprio loro gli inventori di un certo tipo di sound, ripreso poi da molti altri gruppi nella seconda metà degli anni ’90.
“Dopesick”, per quanto non sia uno dei primi lavori di questo quartetto (è infatti datato 1996), si colloca sulla vetta della categoria per espressività e, soprattutto, per le influenze che ha generato. Il disco in questione è tecnicamente abbastanza semplice, con accordi e riff piuttosto facili da eseguire ma di indiscutibile impatto: anche il drumming si colloca su tempi medio-facili, e solo di rado si lascia andare a sfuriate ritmiche tipicamente Punk. La maggior parte del disco infatti è molto lento e cadenzato (proprio per questo si può definire Sludge), anzi, i rallentamenti sono dilatati a dismisura proprio per rendere l’idea di quell’inesorabile travaglio generazionale. Il cantato è qualcosa di assolutamente degradante; la voce, urlata ma lungi dall’ essere uno screaming o un growling (in piena tradizione Hardcore Punk, insomma), è sguaiata, sporca, rabbiosamente rassegnata ad una condizione alla quale non si può sottrarre. Non si può pensare ad una voce più adatta ai testi degli Eyehategod, un concentrato di nichilismo puro, di sfiducia e disistima nei confronti della vita e degli uomini: e poi il desiderio della morte, lo squallore di una pace interiore raggiunta solo grazie alle sostanze stupefacenti.
Le dodici canzoni sono tutte ben strutturate ma non esageratamente, in accordo con il mood espresso. Ma il cardine di “Dopesick” e in generale di tutta la produzione di questo gruppo è il mood: complice anche una produzione da Garage Band, vengono riprodotte in ogni canzone le giornate di una gioventù suburbana destinata alla rovina, ad una vita buttata via e trascorsa nel peggiore dei modi. Il riffing torrido e schiacciante, la voce graffiante e la stessa semplicità della musica suonata, delineano una realtà di disadattati, emarginati da una società che in fondo non è una migliore alternativa. A onor del vero, non tutti gli episodi di questo cd sono felicissimi; i pezzi meno lenti finiscono infatti per costituire la parte più debole con eccessivi rimandi al Punk: quelli più riusciti sono invece quelli più marcatamente Sludge, dove i cinque riescono a dare sfogo al loro lato più intimamente corrotto.
Quello che è inoltre apprezzabile (anche se allarmante) di questo complesso, è che i sentimenti espressi nelle loro composizioni, sono quelli che caratterizzano le loro vite e che quindi non sono solo una facciata destinata al mercato musicale. La spazzatura sociale e i relitti umani si concretizzano nelle canzoni di questo album, epocale, seminale e emozionalmente desolante.
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