"In The Name Of Suffering" venne registrato ai Festival Studios di Kenner, un buco di culo dalle parti di LA, per soli 1.000 dollari. Ad essere sinceri (e, a volte, è così difficile ...) 200 dollari vennero spesi in alcolici e 800 finirono nelle tasche dei tizi dello studio, uno dei quali era appena andato in overdose.
Non avevamo alcuna idea di che cosa fare in un "vero" studio. Così ci limitammo a seguire l'istinto.
Il sound del disco finì per essere grezzo e del tutto privo di compromessi. Addirittura avanti sui tempi, per la sua aggressività primordiale.
Fu la nostra prima release per un'etichetta francese chiamata "Intellectual Convulsion", che ne stampò (per quello che ne possiamo sapere) 1500-2000 copie, ne diede 5 ad ognuno di noi, e sparì nel nulla tra le strade di Parigi.
La Century Media si offrì di ristampare il disco e di mandarci in tour in giro per l'Europa. Così firmammo sulla linea tratteggiata col sangue e col whiskey (forte, eh?!?).
Quindi ascoltate questo disco, versate una lacrima nel vostro bicchiere e stappate una bottiglia in nome dei vecchi tempi" (Mike Williams, note alla ristampa del 2007 di "In The Name Of Suffering")
Sludge inteso come ruggine, cancro che intacca il medallo pesante che piace a grandi e piccini, fino a renderlo malato, agonizzante.
Doom lento, slabbrato. Sfuriate hardcore folli e disperate. Blues sudista sfigurato, deforme.
Come tentare una fuga impossibile in mezzo ad una palude, tra mosche e zanzare che ti si appiccicano addosso, trascinandosi su una gamba ferita, inseguiti da un maniaco armato di cesoie.
Tony Iommi, messo a correre su un tapis-roulant con le palle attaccate alla 220 V finché non gli tremano i baffi...
King Buzzo, rapato a zero e costretto ad indossare le scarpe di vernice della domenica...
Greg Ginn, inchiodato mani e piedi ad una sedia, appeso ad una flebo di analcolico biondo...
Il feedback che apre e chiude ogni canzone: spilli che ti si conficcano dietro gli occhi, il cigolio della porta di una stanza delle torture...
"In The Name Of Suffering" ('92) è soprattutto Mike Williams, evangelista di una cattiva novella, ambasciatore di un messaggio universale di autolesionismo, emarginazione, povertà, trip sintetici finiti male, orrori nascosti in cantina o nell'armadio in cui si conservano le salopette.
E' soprattutto la sua (non)voce, il suo (non)cantato, che racconta di ferite autoinflitte nella solitudine di una stanza, di pozze di acqua stagnante, di violenze e abusi consumati fra le mura di una catapecchia. Di cantine umide, di puzzo di chiuso. Di lame di luce che si fanno spazio tra assi di legno ammuffito.
Un disco ancora più sgraziato, più imperfetto, più marcio rispetto ai successivi capolavori.
E, forse, proprio per questo, addirittura superiore.
Lo sludge nella sua forma più infetta.
Lo sludge nella sua forma più pura.
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