Se c’è una cosa che adoro di un sito come DeBaser è quella di poter liberamente gridare al mondo: “Questa band in Italia voi non la cagate, questo disco in Italia voi non lo recensite, ebbene marrani, ci penserò io!”, per poi passare l’ora successiva a comporre di getto la propria opera in preda a una febbrile eccitazione, fantasticando su una propria ipotetica statua da piazzare sull’Altare della Patria, se solo quest’ultimo avesse un angolino dedicato alle eroica gesta dei Recensori Musicali Italiani.
Boiate a parte, ricordo di aver scoperto questo disco nell’ormai lontano 2006, dopo aver letto una sua recensione sul caro vecchio Metal Hammer (l’unica in italiano che abbia trovato, e comunque non su internet). Era l’epoca della post-adolescenza, della fissa per i Neurosis e per le vangate sludge metal, così mi avvicinai convinto di trovare pane per i miei denti. Così fu: appena partì l’opener “Blood (This Consumes You)” mi sentii elettrizzato come una scolaretta a un concerto degli One Direction, presissimo da quei riffoni sludge così marci e pesanti (almeno per il me stesso dell’epoca) che mi facevano godere manco fossi un filosofo epicureo a un party di Dan Bilzerian. Ascoltai quella roba in loop per almeno un mese, non lesinando headbanging sguaiati in treno mentre la gente intorno a me mi scambiava per un indemoniato posseduto contemporaneamente da Satana e da Maccio Capatonda.
Francamente non capisco perché questi tre ragazzotti californiani abbiano deciso di cambiare il loro vecchio monicker “Shiva” in un molto più anonimo “Occhi di fuoco”. Tra l’altro, spulciando su MetalArchives, si scoprono almeno un altro paio di band con lo stesso nome (che poi non se le caga di striscio nessuno è un altro paio di maniche, e non è che i nostri se la passino molto meglio). Se poi ci mettiamo anche l’omonimo film del 1983, e il fatto che la band abbia pubblicato solo un EP e un altro disco prima di questo (“Ashes To Embers”, del 2004) per poi sparire nel nulla, mi chiedo perché darsi la zappa sui piedi anche nella scelta del nome e condannarsi così all’anonimato eterno.
Detto questo, dopo la bellezza di 11 anni il suo ricordo mi balena in mente all’improvviso e così ritorno ad ascoltarlo per intero, provando ad accordare le mie orecchie su vibrazioni più critiche/oggettive. E in effetti non si può certo dire “Prisons” sia un capolavoro: decisamente troppo derivativo, acerbo e anche un po’ ingenuo in alcuni punti, con un paio di canzoni riempitive, riff non sempre accattivanti e una generale indecisione di fondo su “cosa suonare” che non lo fa essere né carne né pesce. In quale genere collocarlo con precisione? Troppo vicino alla forma canzone per essere sludge, troppo grezzo per essere post, troppo sporco per essere alternative.
Perché quindi un disco non particolarmente brillante come “Prisons” dovrebbe risvegliare l’interesse di qualcuno, visto che ormai questa band sembra essere sparita nello stesso nulla da cui era emersa? Forse, mi verrebbe da rispondere, perché in fondo gli amanti del genere hanno bisogno di un disco così. Hanno bisogno della voce roca e graffiata di Mark Fisher, di quei cori mistici a metà strada tra monaci ortodossi e un gruppo di hooligans ubriachi del Manchester United, di quei riffoni influenzati dal post metal che cercano di conciliare lo sporco dello sludge con le melodie accattivanti di un certo alternative rock. Hanno bisogno di una band così: una band che, pur essendo derivativa e pur ispirandosi a tutta la produzione delle band post-Neurosis, cerca disperatamente di trovare un proprio posto nel mondo, una propria originalità, un proprio marchio di fabbrica.
I pesanti riff e i cori della già citata opener, la passionale inquietudine dei riff di “It All Dies Today”, come anche i malinconici arpeggi di “True Love” o il ritornello catchy di “Dead To The World” confermano in effetti proprio questo. E la suite finale “Fire Inside”, che supera gli 8 minuti, appare come il grido di dolore di un gruppo alla ricerca della propria identità in un mercato discografico inflazionato. Peccato sia anche il loro canto del cigno, visto che questo disco sarà l’ultimo della band.
Se non soffrite lo sludge e il post metal, passate pure oltre; se non sapete cosa significhino questi termini, procuratevi la discografia dei Neurosis e ritornate dopo aver studiato; se siete cresciuti a pane e Minsk, procuratevi quest’album e dategli una chance. “Prisons” è un’opera che ha una sua dignità artistica: ha il sapore di un’occasione mancata, di quei dischi che falliscono il bersaglio ma che “almeno ci hanno provato”. Anche per questo, secondo me, merita di non finire nel dimenticatoio.
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