C'è una logica, nel voler parlare oggi di Creuza de mä, una logica che valica le ragioni annalistiche, artistiche – senz'altro molteplici, per altro riconosciute[1] – e intellettuali, una logica che sorge già agli albori della collaborazione tra il cantautore genovese e Pagani, collaborazione che risale a La buona novella.
Il disco, che come ricorda De André è «una specie di sintesi di quelli che erano i suoni del mediterraneo: suoni non soltanto strumentali ma anche vocali», si rivela un concept album incentrato sul mare, che inizia con la title track introdotta da una gaida macedone, cui fanno seguito il bouzouki e la viola a plettro: viene raccontato il ritorno di marinai stremati dalla fatica («ombre di facce»), una compagnia che giunge in città e che non sembra propriamente rispettabile, affamata [2] e attirata dalle ragazze che «odorano di buono» tanto che «puoi guardarle senza preservativo». (C'è una lettura di questa canzone che ribalta la canonica sfida al destino della povera gente, chiave in cui comunemente viene letto l'intero album, e la butta in politica[3], precisamente la canzone diventa una sorta di critica al governo Craxi: il mattino che cresce («u matin crescià») diventa così l'alba socialista e il fratello dei garofani e delle ragazze («frè di ganeuffeni e dè figge») sarebbe Craxi, il cui socialismo è padrone della corda marcia d'acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare («bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä»), della serie che se Craxi fosse stato un vero socialista noi, cioè i marinai, non saremmo stati emigranti della risata coi chiodi agli occhi («emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi»).) Interessante, inoltre, è la struttura musicale: dopo l'introduzione di gaida, la batteria, che nella prima metà della canzone ritarda i battiti deboli, suona un larghetto mascherato da un moderato battendo sul charleston i sedicesimi.
E a proposito di preservativi e ragazze, ecco Jamin-a, canzone molto più saltellante (vedi il basso), quasi un allegro moderato, sostenuto anche dall'assolo di bouzouki, incentrata sulla donna omonima che rappresenta «un'ipotesi di avventura positiva che in un angolo della fantasia del navigante trova sempre e comunque spazio e rifugio»; Jamin-a, come già Bocca di Rosa[4], viene descritta come una lupa di pelle scura con la bocca spalancata («lua de pelle scûa cu'a bucca spalancà»), una stella nera che brilla («stella neigra ch'a lûxe»), sultana delle troie («sultan-a de e bagasce») e regina madre delle sambe («regin-a muaé de e sambe»), che offre speranza ai – anzi, si direbbe che lei stessa sia la speranza dei – marinai (quello che parla, in particolare, dice di volersi divertire nell'umido dolce del miele del suo alveare, espressione in genovese ha tutta un'altra coloritura: «me veuggiu demuâ 'nte l'ûmidu duçe de l'amë dû teu arveà»). E così ecco locuzioni vividamente erotiche,; su tutte: «e l'ultimo respiro, Jamin-a, regina madre delle sambe, me lo tengo per uscire vivo dal nodo delle tue gambe». Perché «duve gh'è pei gh'è amù»[5].
Con la traccia che segue (Sidùn, Sidone[6]) si passa in tutt'altra terra, nel Libano, tra le note straziate del canto di Fabrizio che qui si limita a tracciare pennellate vocali – e la voce cerca di essere un'estensione dello strumento, intonando le note che vengono suonate – per comporre immagini sfuggenti e tutt'altro che labili nella memoria dell'ascoltatore («i euggi di surdatti chen arraggë cu'a scciûmma a a bucca cacciuéi de bæ»[7]), per poi passare a un secondo e terzo ritratto di persone genovesi: il primo, Sinàn Capudàn Pascià, inizia con un accompagnamento di synth sostenuto successivamente da un riff di tre note che pian piano viene armonizzato fino a completare la struttura armonica, e tratta di un marinaio, il Cicala (Sigà, nella lingua d'origine), catturato dalla flotta turca nel XVI secolo e divenuto inspiegabilmente Gran Visir e Seraschiero del sultano di Costantinopoli con il nome, appunto, di Sinàn Capudàn Pascià, il quale sul finale impartisce lucide lezioni di filosofia il secondo, invece, incentrato sulla pittima ('a pittima), termine che va fatto risalire all'antica Genova, dove il signorotto si avvaleva di creditori – le pittime, appunto – per riscuotere i propri debiti, debiti che spesso gravavano su famiglie al limite della povertà, e allora la pittima si guadagnava la nomea che tutt'oggi le gravita addosso, quella di un chupacabra (naturalmente, l'analisi che ne fa de André non è così banale e sempliciotta, tant'è che emerge dalla figura della pittima un'emarginazione sociale dovuta alle carenze fisiche[9] che lo impossibilitavano d'imbarcarsi per mare e gli imponevano di andare in mezzo alla gente (affinché i creditori, vergognandosi, pagassero) per domandare i soldi ai creditori, ai quali, qualora si fossero opposti, la pittima avrebbe ricordato che vivere è caro ma a buon mercato («vive l'è cäu ma a bu-n mercöu») per chi chiede i soldi e non li restituisce, e, se proprio non disponessero di quella cifra, ecco emergere un tocco d'umanità: è la pittima a dare i soldi alla vittima («quandu a vittima l'è 'n strassé ghe dö du mæ»).
Tocca poi al testo più vivace dell'album, dal titolo Ä dumènega, la domenica, giorno in cui, nella vecchia Genova, le prostitute uscivano dal proprio quartiere (quello che oggi definiremmo il quartiere a luci rosse) e passeggiavano per la città. Ciò era loro consentito perché, con i proventi delle case di tolleranza, il comune era in grado di pagare i lavori portuali. Naturalmente, ciò si scontra con la città borghese & benpensante («e ciû s'addentran inta cittæ ciû euggi e vuxi ghe dan deré ghe dixan quellu che nu peúan dî de zeùggia sabbu e de lûnedì»[10]), emblema della quale è «u direttú du portu», il direttore del porto[11], che grida alle prostitute: «bagasce sëi e ghe restè», bagasce siete e ci restate.
E tu che gli sbraiti appresso
neanche più il naso avete di nuovo
brutto stronzo di un portatore di Cristo
non sei l'unico che se ne è accorto
che in mezzo a quelle creature
che si guadagnano il pane da nude
c'è anche tua moglie.[12]
L'album, probabilmente il picco artistico di de André sia dal punto di vista musicale che poetico, si conclude con D'ä mæ riva, dalla mia riva, un brano (l'unico composto con un 6/8) denso di malinconia intrisa di spegnimento tra le note della suggestiva chitarra ottava suonata da Fabrizio: è il momento della partenza del marinaio, quindi del saluto all'amore della sua vita (ti me perdunié u magún ma te pensu cuntru su, mi perdonerai il magone ma ti penso contro sole) e l'allontanamento dalle certezze.
In André Talk, Fabrizio dice: «Quando un navigante abbandona la banchina del porto della città in cui vive, arriva il momento del distacco dalla sicurezza, dalle certezze, sotto specie magari di una moglie custode, appunto, del talamo nuziale, agitante un fazzoletto chiaro e lacrimato dalla riva. Il distacco dal pezzetto di giardino, dall'albero del limone e, se il navigante parte da Genova, sicuramente dal vaso del basilico, piantato lì sul balcone a far venire appetito agli altri, a quelli che restano, ai disertori del mare. È un momento sottilmente drammatico, un momento che si vive come accecati da un controsole, e che suscita la nostalgia nel momento stesso in cui, imbarcato, fa l'inventario del suo baule da marinaio, preparatogli dalla moglie: tre camicie di velluto, due coperte, il mandolino e un calamaio di legno duro, casomai gli venisse voglia di scrivere. Ma in mare c'è poco tempo per la nostalgia, c'è il pericolo sotto ogni soffio di maestrale, dietro ogni incresparsi di un'onda che arrivi da libeccio e, soprattutto, passato il famoso ponte di Portofino, riaffora come uno scoglio a cui aggrapparsi la speranza di una Jamin-a, di quella lupa di pelle scura scatenata nell'amore e così diversa dalla compagna della vita di cui resta al marinaio solo una fotografia sbiadita di quando lei era ancora ragazza, una fotografia sbiadita in fondo a un berretto nero, per poter baciare ancora Genova, dice la canzone D'ä mæ riva, sull'immagine di una bocca che io definisco in naftalina».
[1] Il frontman dei Talkin Heads, David Byrne scrisse alla rivista Rolling Stones descrivendo il concept album come uno dei dischi più importanti degli anni Ottanta, e in breve il disco divenne uno dei masterpiece della musica etnica, raggiungendo il Giappone, la Francia, la Spagna, l'Inghilterra, gli Stati Uniti, e in Italia vinse il Club Tenco come miglior album e per la miglior canzone dialettale, il Telesette &cc.
[2] Viene fatto un elenco di piatti tipici, come le cervella d'agnello bagnate nel bianco di Portofino e il pasticcio in agrodolce di lepre di tegole (= gatto).
[3] http://chefacciamo.wordpress.com/2004/05/07/creuza-de-ma/
[4] Lo stesso Fabrizio la paragona all'ormai celeberrima graziosa: «È una Bocca di Rosa vista attraverso un'esperienza personale». (Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio de André)
[5] Dove c'è pelo c'è amore.
[6] «Sidone è la città libanese che ci ha regalato, oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto, anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon nel 1982, come un uomo arabo di mezza età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carrarmato. Un grumo di sangue, orecchie e denti da latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza. La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto non va semplicemente confusa con la morte del bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.» (Fabrizio de André, André Talk. Le interviste e gli articoli della stampa d'epoca)
[7] E gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli.
[8] Si domanda, infatti, che differenza ci sia nel bestemmiare Cristo al posto di Maometto («giastemmandu Mumä au postu du Segnü»), e invocando il suo amore medita che la sfortuna è un cazzo che vola intorno al sedere più vicino («amü, me bell'amü, a sfurtûn-a a l'è 'n belin ch'ù xeua 'ngiu au cû ciû vixín»).
[9] Un torace largo un dito giusto per nascondermi con il vestito dietro a un filo («'na cascetta larga 'n diu giûstu pe ascúndime c'u vestiu deré a 'n fiu»).
[10] E più si addentrano nella città più occhi e voci gli danno dietro gli dicono quello che non possono dire di giovedì di sabato e di lunedì.
[11] che ci vede l'oro in quelle chiappe a riposo dal lavoro, per non fare vedere che è contento che il molo nuovo ha il finanziamento si confonde nella confusione con l'occhio pieno di indignazione («c'u ghe vedde l'ou 'nte quelle scciappe a reposu da a lou pe nu fâ vedde ch'u l'è cuntentu ch'u meu-neuvu u gh'à u finansiamentu u se cunfunde 'nta confûsiún cun l'euggiu pin de indignasiún»).
[12] «E ti che ti ghe sbraggi apreuvu mancu ciû u nasu gh'avei de neuvu bruttu galûsciu de 'n purtò de Cristu nu t'è l'únicu ch'u se n'è avvistu che in mezzu a quelle creatúe che se guagnan u pan da nûe a gh'è a gh'è a gh'è a gh'è a gh'è anche teu muggè».
[13] che ha voluto rischiare e fare quello che gli piaceva, due fenomeni che oggi risultano pallidi se ci si affaccia a quello che è il mercato musicale. L'album precedente di de André, l'omonimo, anche soprannominato L'indiano per via della copertina, è stato quello che ha incassato più di tutti, e quando il cantautore è voluto uscirsene con l'idea dell'album in dialetto i discografici si sono strappati i capelli, perché era una scelta rischiosa (avrebbe potuto continuare sulla strada del disco precedente: rischiare poco, guadagnare molto), ma de André, artista prima di tutto, ha voluto assecondare il rischio e gettarsi a capofitto in un'impresa che ha dato per esito qualcosa di inimmaginabile, un capolavoro totale. Questa è l'arte, e questo – a mio modesto parere – è uno dei motivi più importanti per ricordare Creuza de mä. Specie di questi tempi musicalmente tormentati.
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